Un Lidar per l’atmosfera

Le scienze dell’atmosfera hanno fatto registrare negli ultimi decenni dei notevoli sviluppi, dovuti in parte alla introduzione di tecnologie osservative nuove e in parte all’impiego di potenti mezzi di calcolo, e resi possibili, almeno in alcuni paesi, da una accresciuta sensibilità verso le applicazioni e dalla disponibilità di adeguate risorse. I temi di corrente interesse riguardano l’evoluzione del clima globale, l’assottigliamento dello strato di ozono, l’inquinamento urbano. Anche se la scala spaziale risulta estremamente varia, da quella globale a quella locale, fenomeni e metodi di osservazione e di studio manifestano una notevole similarità e consentono per molti aspetti un comune approccio sperimentale e interpretativo. L’invenzione del laser agli inizi degli anni ‘60 ha reso possibile un considerevole progresso nella misura a distanza – telerilevamento – di varie grandezze caratteristiche dell’atmosfera. Le tecniche basate sulla propagazione delle onde elettromagnetiche possono essere distinte in passive e attive: quelle passive utilizzano radiazione termica emanata dal Sole o dall’ambiente terrestre, mentre quelle attive utilizzano sorgenti artificiali e per la maggior parte si basano sul principio del radar (= RAdio Detection And Ranging). Questo principio consiste nell’inviare brevi impulsi di radiazione in fasci ben collimati, e nel rivelare la presenza di bersagli dalla radiazione da questi diffusa e cioè dall’eco ricevuto. Il ritardo tra l’emissione dell’impulso e la ricezione dell’eco consente di misurare la distanza del bersaglio/diffusore mentre l’intensità dell’eco fornisce la sezione d’urto ossia una misura della riflettività, in qualche modo riconducibile alle sue caratteristiche. La tecnica ha avuto un grande sviluppo durante la seconda guerra mondiale, e ha dato luogo all’eccezionale crescita nella tecnologia delle microonde. Nelle applicazioni del radar rivolte alla difesa e alla navigazione, il bersaglio è generalmente rappresentato da oggetti isolati – aerei, navi – ovvero da caratteristiche del territorio etc.. Il radar a microonde è anche utilizzato in meteorologia per la rivelazione e misura delle precipitazioni. In questo caso i diffusori sono distribuiti e sono rappresentati dalle particelle di acqua liquida o solida: la sezione d’urto per unità di volume è data dal contributo complessivo dei diffusori. Agli analoghi dispositivi ottici, che utilizzano laser come sorgenti, è stato dato il nome di radar ottici ovvero lidar (= LIght Detection And Ranging). In sostanza la tecnica consiste nel trasmettere un’impulso, cioè un pacchetto di fotoni di breve durata, ad es. alcuni nanosecondi, e nell’attivare il ricevitore in modo da avere nel tempo una storia del segnale ricevuto. Nelle applicazioni dei lidar allo studio dell’atmosfera, gli echi sono prodotti da molecole, aerosol, nubi. Le specie molecolari possono essere distinte in principali e secondarie: le principali sono l’azoto e l’ossigeno che da soli rappresentano circa il 98% della massa atmosferica e il cui rapporto può essere considerato costante sino alla quota di 100 km. Le specie secondarie anche se presenti in quantità ridotta conferiscono all’atmosfera particolari caratteristiche chimico-fisiche: menzioniamo anzitutto l’acqua, H2O, l’ozono, O3, il biossido di carbonio, CO2, il metano, CH4, specie molecolari che intervengono a determinare il bilancio termoradiativo della Terra. Seguono gli ossidi dell’azoto, N2O, NO, NO2, i composti dello zolfo, SO2, SO3, H2SO4, e dell’idrogeno dispari, H, OH, HO2, e via via una grande varietà di costituenti e prodotti intermedi, alcuni dei quali di origine antropica, come i clorofluorocarburi: molti di questi componenti sono dotati di grande reattività chimica e possono fungere da catalizzatori. Sono presenti in concentrazioni dell’ordine di 10-9 o minori, e intervengono in modo determinante nella progressiva modifica della composizione atmosferica con la quota e nella sua evoluzione. Gli aerosol sono particelle di composizione varia che per le loro dimensioni, tipicamente comprese tra 0,01 e 10 mm, e la conseguente modesta velocità di sedimentazione, risultano sospese nell’aria. Le nubi possono essere considerate genericamente come densi ammassi di aerosol: le nubi normalmente oggetto di interesse meteorologico sono costituite da particelle di acqua liquida o di ghiaccio. Le nubi, e in misura minore gli aerosol, costituiscono l’elemento maggiormente incerto nel bilancio energetico planetario a causa della loro variabilità e complessa struttura. Alla tropopausa (localizzata tra 8 e 15 km dipendentemente dalla latitudine) e nella sovrastante bassa stratosfera, e in particolare nelle zone polari, date le basse temperature, altri componenti possono condensare. Strati di aerosol composti da soluzioni di H2SO4 in acqua si formano nella bassa stratosfera in seguito a violente eruzioni vulcaniche, e vi permangono per anni. Nelle zone polari, in particolare in Antartide, si ha la formazione di nubi stratosferiche (PSC=Polar Stratospheric Clouds) formate da acido nitrico triidrato, HNO3×3H2O, ovvero da ghiaccio o da soluzioni ternarie H2SO4-HNO3-H2O, responsabili di reazioni catalitiche e di processi di denitrificazione che portano alla distruzione dello strato di ozono. Alla mesopausa estiva (quota di circa 80 km) e a latitudini superiori a 60° sono spesso presenti strati di aerosol di incerta composizione noti come nubi nottilucenti (NLC = NoctiLucent Clouds), la cui rivelazione mediante lidar richiede sistemi molto sensibili a causa del ridotto spessore ottico (10-4). Nella sua forma più semplice un lidar si compone di un trasmettitore, un ricevitore e un sistema informatico per la gestione dello strumento e per la raccolta e l’analisi dei dati. Uno schema di principio è mostrato in Fig. 1. Ricevitore e trasmettitore sono contigui; il sensore ricevente è puntato nella stessa direzione del fascio trasmesso, generalmente verso lo zenit. In tal modo il sistema è in grado di ricevere gli echi prodotti dal fascio trasmesso nell’attraversare l’atmosfera lungo la verticale, a partire dalla quota ove il fascio entra nel campo di vista del ricevitore. Il trasmettitore consiste di un laser, e di ottiche per orientare il fascio: talvolta comprende un telescopio di collimazione, utile per rendere il fascio in uscita meno (o più) divergente. Una minor divergenza del fascio consente di restringere il campo di vista osservato dal ricevitore, con una conseguente riduzione del rumore costituito dalla radiazione solare diffusa. Un aumento della divergenza, d’altra parte, riduce la densità di potenza del fascio uscente con la distanza, intervento che può rendersi necessario se si ipotizza un danno alla vista di un possibile osservatore. I laser utilizzabili sono di vari tipi e caratteristiche: i più diffusi sono a stato solido, e utilizzano barrette di NdYAG come materiale attivo. La lunghezza d’onda fondamentale emessa è l = 1,064 mm: quasi sempre il laser incorpora dei generatori di seconda e anche terza armonica (rispettivamente l = 0,532 mm e l = 0,355 mm), al fine di operare nello spettro visibile ove i rivelatori hanno generalmente prestazioni migliori e l’intensità del segnale retrodiffuso dai componenti atmosferici è maggiore. Inoltre dal confronto tra segnali ricevuti a più lunghezze d’onda è possibile ricavare informazioni sulle dimensioni delle particelle diffondenti. Tipicamente un laser di questo tipo emette impulsi di energia intorno a Wtr = 0,2 J a l = 0,532 mm, e alla frequenza di ripetizione prf = 10 Hz, ma si possono avere prestazioni molto superiori. Una caratteristica importante della radiazione emessa dal laser è la polarizzazione, cioè la direzione del vettore campo elettrico: poiché la radiazione retroriflessa viene depolarizzata in misura diversa dalle particelle diffondenti, l’analisi del segnale retrodiffuso nelle due polarizzazioni, parallela e ortogonale, fornisce informazioni sulla loro natura e sui processi di scattering. L’aria priva di aerosol depolarizza intorno a qualche percento; particelle di forma sferica, e quindi liquide, non depolarizzano, mentre cristalli di ghiaccio depolarizzano fortemente. La radiazione retrodiffusa raccolta da un telescopio viene fatta passare attraverso dei dispositivi di analisi spettrale e della polarizzazione (al limite un filtro interferenziale e un cubo depolarizzatore che separa le due componenti) prima di pervenire ai rivelatori. Questi sono in generale dei tubi fotomoltiplicatori eventualmente raffreddati se interessa limitare il rumore elettronico da questi generato. L’analisi dei dati può essere effettuata, ad intervalli di quote crescenti, sia in modo analogico, campionando i segnali mediante un convertitore analogico/digitale e inviandoli ad un computer, ovvero attraverso un sistema di fotoconteggio nel quale i singoli fotoelettroni emessi dal catodo vengono amplificati e contati. Riassumendo, le proprietà del laser importanti in queste applicazioni sono la lunghezza d’onda, la coerenza, spaziale e temporale, la polarizzazione, la potenza, media e di picco, la durata e la frequenza di ripetizione degli impulsi o altra forma di modulazione dell’onda trasmessa, l’efficienza complessiva del laser. La coerenza spaziale consente di convogliare l’energia entro fasci collimati di ridotta divergenza; quella temporale implica una elevata monocromaticità e rende possibile mediante filtri di separare il segnale dal rumore e, con più sofisticati dispositivi, dal confronto tra il segnale trasmesso e quello ricevuto, di ricavare lo spettro di quest’ultimo. La tecnica consente di ottenere echi da componenti atmosferici fino a quote di circa 100 km. La capacità di effettuare una misura deve essere valutata in base alla potenza del segnale ricevuto; al rapporto tra segnale e rumore; alla risoluzione in distanza e angolare; al tempo di integrazione. Una prima considerazione è legata alla consistenza statistica della misura, sulla base del numero N di fotoelettroni complessivamente ricevuti, nell’intervallo di quote desiderato, e nel tempo assegnato. Questa determinazione è afflitta da una fluttuazione statistica valutabile come Ö N. Tuttavia la misura non si esaurisce in una semplice determinazione del segnale ricevuto, poiché da questo occorre sottrarre il rumore dovuto a sorgenti sia esterne (ad es. la luce solare diffusa dal cielo e percepita dal ricevitore) sia interne (rumore proprio del rivelatore, dovuto ad esempio alla emissione spontanea di elettroni) per giungere ad una stima corretta del segnale effettivamente retrodiffuso e in definitiva della sezione d’urto. Lo scattering è il fenomeno fisico che rende possibile la generazione del campo diffuso da parte delle inomogeneità che il fascio incontra nel suo percorso: in pratica, da parte di molecole e aerosol. La potenza ricevuta da diffusori distribuiti in funzione della distanza z può essere espressa dalla seguente equazione: Pric=Wtr (c/2) b(z) z-2A K exp ( -2 ò z O a(z’) dz’) ove Wtr è l’energia dell’impulso emesso dal laser, c è la velocità della luce, b(z) è la sezione d’urto differenziale di retrodiffusione per unità di volume, A è l’area equivalente dell’antenna ricevente, K è un coefficiente che tiene conto dell’efficienza del sistema, a è il coefficiente di estinzione del segnale nel percorso dalla quota z = 0 del lidar alla quota z. La retrodiffusione b può essere attribuita alla somma dei contributi delle molecole, bM, e degli aerosol, b A: b = b M + b A. Lo scattering della luce da molecole è stato studiato per primo da lord Rayleigh, e da lui prende il nome. La seguente formula esprime lo scattering molecolare per l’aria, nello spettro visibile, lontano da ogni riga di assorbimento bM = nM 5,45 (l(mi m)/0,55) -4,05 10-32 m2 sr-1, ove nM rappresenta la densità numerica delle molecole. La dipendenza dalla quarta potenza favorisce le lunghezze d’onda più corte e rende difficile utilizzare laser operanti nell’infrarosso per l’osservazione dello scattering molecolare se non a distanze ravvicinate. In corrispondenza di una riga risonante la retrodiffusione aumenta cospicuamente: in pratica questo fenomeno consente di osservare lo scattering risonante dagli atomi di sodio presenti nell’alta atmosfera a causa della sublimazione delle meteore. Per le sfere esiste una soluzione analitica dovuta a Mie. La teoria è stata estesa agli ellissoidi, ma manca per forme più complesse. Assimilando una particella aerosolica ad una sfera di raggio r la sua sezione d’urto può essere espressa come il prodotto di una efficienza di scattering Q per la sezione geometrica p r 2. Questa quantità fornisce una misura relativa della capacità della particella di captare energia dal campo incidente: se questa energia venisse diffusa in modo isotropo, per unità di angolo solido si avrebbe Q r 2/4. Tuttavia la particella non diffonde in modo isotropo e per conoscere la frazione diffusa in una certa direzione, in particolare a 180°, per unità d’angolo solido, occorre introdurre una quantità denominata funzione di fase P(180°): in definitiva si ottiene la sezione d’urto differenziale di retrodiffusione, per unità di volume, b = n P(180°) Q r 2/4, ove n è il numero di particelle diffondenti per unità di volume. Questa espressione assume che le particelle siano eguali: in realtà esse sono di dimensioni diverse e occorre tenere conto della loro distribuzione in funzione del raggio. Q è funzione del rapporto a = 2 p r/l e, per valori di a molto minori di uno, decresce con la radice quarta della lunghezza d’onda, mentre, in assenza di assorbimento da parte della particella, raggiunge e si mantiene intorno a 1 per valori maggiori. Parametri atmosferici ottenibili dall’analisi degli echi Dopo aver sommariamente descritto la tecnica, entriamo nell’oggetto della misura. I meccanismi di scattering possono essere classificati come elastici o non elastici. Nello scattering elastico (casi citati: di Rayleigh, di Mie) la radiazione diffusa ha la stessa lunghezza d’onda dell’onda incidente (a parte gli spostamenti di lunghezza d’onda dovuti all’effetto Doppler). La Fig. 2 mostra il risultato della telemisura del contenuto aerosolico della stratosfera effettuata dallo scrivente nel 1964 nel periodo seguente l’eruzione del vulcano Agung. Da allora la tecnica lidar ha fornito un grande contributo alle conoscenze relative agli aerosol, particolarmente a quote superiori a quelle normalmente accessibili alle misure in situ: e cioè dalla tropopausa, attraverso la stratosfera e alla mesopausa. Il segnale mostra il contributo degli aerosol e delle molecole: la separazione dei due contributi è stata effettuata in modo semplice, conoscendo il profilo della temperatura. Nell’ipotesi che l’atmosfera sia in equilibrio idrostatico, poiché la massa molecolare media si può ritenere costante fino a circa 100 km, dalla legge dei gas perfetti si può calcolare la densità numerica molecolare n(z) e quindi b M(z). In genere la sensibilità del lidar può essere calibrata sulla base dell’intensità dell’eco in zone ove la presenza di aerosol è trascurabile. Come diremo in seguito, la presenza o assenza di aerosol può essere accertata con una metodologia più complessa. In assenza di aerosol, procedendo in modo inverso a quanto detto, dai profili retrodiffusi dall’atmosfera molecolare si ricava facilmente il profilo della temperatura atmosferica. In tal modo è possibile fornire profili della temperatura a quote generalmente inaccessibili da terra mediante palloni sonda o altre tecniche, con una risoluzione dell’ordine di alcuni chilometri. Un esempio è mostrato in Fig. 3. Nello scattering anelastico l’onda diffusa acquista o perde energia a causa dell’interazione del fotone con i livelli energetici della particella: nello scattering Raman la frequenza della radiazione diffusa differisce da quella incidente di una quantità equivalente a un livello rotazionale o vibrazionale della molecola. In tal modo si possono selezionare gli echi di ciascuna specie molecolare in base alla differenza di lunghezza d’onda nel segnale ricevuto. Poichè la sezione d’urto per lo scattering Raman è circa 1/1000 di quella per lo scattering elastico, ne consegue che il metodo ha una ridotta sensibilità. Si può tuttavia con facilità mettere in evidenza lo scattering Raman delle specie principali (N2 e O2): questo dato può essere utilizzato ai fini della calibrazione consentendo di separare gli echi molecolari da quelli aerosolici. Lo scattering Raman si rivela assai utile per misurare la concentrazione di specie variabili e importanti come il vapor d’acqua; sembra possibile ricavare profili anche per l’acqua condensata. Tradizionalmente la misura dell’umidità atmosferica viene effettuata mediante igrometri trasportati in quota da piccoli palloni sonda: in genere la misura viene eseguita dai servizi meteorologici in un numero limitato di stazioni una o due volte al giorno. Un lidar può fornire un profilo continuo nel tempo a quote troposferiche con tempi di integrazione contenuti. Una più efficace, ma più complessa procedura per ottenere profili della concentrazione di specie molecolari è offerta dalla tecnica dell’assorbimento differenziale (abbr. DIAL = DIfferential Absorption Lidar). In questo caso vengono irradiati due segnali di frequenze differenti ma vicine, cui corrispondano sensibilmente diversi valori del coefficiente di assorbimento da parte della specie in esame. Gli echi ottenuti alle due diverse lunghezza d’onda tramite lo scattering molecolare mostrano una diversa attenuazione, integrata lungo il percorso, da cui si può ricavare la concentrazione di quella specie. Questa tecnica è stata in particolare adoperata per ottenere profili dell’ozono: richiede lunghi tempi di integrazione e la risoluzione verticale non è molto elevata, ma rappresenta una interessante alternativa alla tecnica tradizionale basata sull’uso di sonde elettrochimiche. Queste sonde vengono portate in quota tramite piccoli palloni del tipo già menzionato e consentono la misura dell’ozono in modo complementare a quella del vento, temperatura e umidità a quote inferiori a 30 km. L’acquisto delle sonde, il cui recupero è improbabile, e la logistica dei sondaggi comportano costi che ne impediscono un uso troppo frequente; talvolta il sondaggio non raggiunge la quota desiderata. A parte l’investimento iniziale, i sistemi DIAL e Raman si propongono come molto più economici per misure di routine. Occorre però rammentare che i sondaggi lidar non possono estendersi al di sopra delle nubi e pertanto si riferiscono a situazioni meteorologiche relativamente benigne. Lo spettro degli echi lidar: la temperatura e il campo del vento Tra i problemi aperti della meteorologia operativa la misura diretta del campo del vento presenta un interesse prioritario. Attualmente questa misura viene effettuata in corrispondenza di stazioni a terra mediante l’inseguimento di palloni sonda, tecnica della quale si è fatto cenno. Per un corretto funzionamento dei modelli previsionali a grande scala conviene che la distribuzione geografica dei siti sia relativamente omogenea; viceversa la copertura è relativamente fitta in alcune aree e pressocché inesistente in altre. Inoltre le misure ottenute dai radiosondaggi sono limitate in quota. Il progetto di misurare il campo del vento dallo spazio mediante lidar ha suscitato da almeno due decenni interesse da parte delle agenzie spaziali. La determinazione a distanza del vettore velocità si basa sull’analisi dello spettro retrodiffuso attraverso la misura dello spostamento in frequenza (effetto Doppler) dovuto alla componente radiale del moto relativo tra il lidar e i diffusori. Lo spettro degli echi lidar Lo spettro del segnale elastico retrodiffuso risulta dalla sovrapposizione degli spettri degli echi molecolari e aerosolici (Fig. 5). Trascurando l’allargamento strumentale, dovuto alla sorgente e all’analizzatore, lo spettro molecolare riflette, tramite l’effetto Doppler, la distribuzione dell’agitazione termica delle molecole e l’esistenza di modi acustici (scattering Brillouin): la sua larghezza a l 0,5 um è di 2 GHz; lo spettro degli aerosol dipende dal moto Browniano e la diffusione turbolenta: la larghezza è dell’ordine di 100 kHz.. Da una analisi completa dello spettro è possibile separare il contributo molecolare da quello aerosolico, e quindi ricavare la presenza di aerosol anche quando questa è molto piccola: dall’argamento molecolare si ricava la temperatura. Inoltre lo spettro ricevuto nel suo complesso si sposta rispetto allo spettro emesso di un ammontare delta f/f = 2v /c a causa della componente radiale v della velocità relativa dei diffusori rispetto al lidar: in tal modo si può ottenere il campo del vento (Fig.6).Rivelazione eterodina Nella misura della velocità gli approcci sono stati diversi: alcuni gruppi hanno sviluppato una tecnica basata sulla rivelazione eterodina. Questa tecnica è alla base del funzionamento dei comuni radioricevitori e consiste nell’utilizzare le caratteristiche non lineari dei rivelatori per ottenere battimento tra due segnali sinusoidali di frequenza diversa: il battimento è un nuovo segnale la cui frequenza è la differenza tra i due segnali. Il segnale battimento, a differenza dei segnali originari può essere portato ad una frequenza abbastanza bassa da poter essere inviata ad un opportuno amplificatore. Per applicare questo metodo alla misura del vento, occorre utilizzare lunghezze d’onda alle quali si possono ottenere echi consistenti dai costituenti atmosferici, e laser che abbiano la necessaria stabilità di frequenza. In questo approccio, trasferito dalle frequenze radio a quelle ottiche o infrarosse, si inviano simultaneamente sul rivelatore due segnali, l’uno costituito dagli echi ricevuti dall’atmosfera, l’altro costituito da un segnale stabile generato da un oscillatore interno al lidar che sia in una stretta e stabile relazione di fase con il segnale trasmesso, in modo da ottenere un battimento dall’interferenza tra i due segnali. Perchè la rivelazione sia efficiente occorre che i fronti d’onda dei due segnali ottici siano tali da generare una interferenza coerente sulla intera superficie sensibile del rivelatore, e produrre un segnale battimento alla frequenza differenza tra i due segnali incidenti. Il segnale generato dal battimento deve essere a sua volta amplificato e portato a frequenze tali da consentire la misura della differnza di frequenza. La tecnica fornisce una descrizione completa dello spettro del segnale ricevuto compatibilmente con la larghezza di banda degli stadi di amplificazione successivi al rivelatore ottico; richiede una grande stabilità in frequenza della sorgente e meccanica della struttura al fine di ottenere la desiderata coerenza. Agli inizi i laser a CO2, apparvero come i soli capaci delle prestazioni richieste: la loro emissione è intorno a 10 mm, che se da una parte riduce i problemi di stabilità e accuratezza impliciti nel metodo eterodina rispetto a lunghezze d’onda visibili, pone gravi problemi circa l’intensità del segnale ricevuto. La sezione d’urto molecolare è troppo modesta a quella lunghezza d’onda e la possibilità di pratico utilizzo è limitata a regioni dell’atmosfera ricche di aerosol, cioè in pratica la bassa troposfera. Rivelazione diretta L’altra via proposta e sperimentata sin dagli inizi dal nostro gruppo e più recentemente da altri si basa sull’utilizzo di un interferometro Fabry-Perot: la larghezza dello spettro e lo spostamento in frequenza vengono ricavati utilizzando l’interferometro come un filtro la cui banda passante viene variata cambiando la distanza delle lastre che costituiscono l’interferometro (Fig. 6). La rivelazione diretta presenta il vantaggio di funzionare a frequenze nello spettro visibile ove la sezione d’urto di molecole e aerosol e la sensibilità dei rivelatori sono particolarmente elevate. Inoltre è tecnicamente più semplice. Agli inizi la sperimentazione si basò sull’utilizzazione di laser ad Argon, stabili ma nello spettro visibile poco potenti e inefficienti e fu dimostrata la capacità di misurare il rapporto aerosol-molecole, la temperatura dell’aria (Fig. 7) e la velocità del vento. Progressivamente i laser a stato solido hanno raggiunto una stabilità adeguata, e la rivelazione diretta si presenta allo stato attuale altamente competitiva. Si noti che per la misura della velocità non è necessario un rilevamento preciso dello spettro nella sua interezza ma solo una determinazione dello spostamento del suo “baricentro” (ossia il momento primo dello spettro) rispetto alla frequenza del segnale emesso. Applicazione a problematiche geofisiche e ambientali In quanto segue si menzionano ricerche in corso rese possibili da strumentazione che ha superato la fase dello sviluppo. Le applicazioni vertono sulle seguenti aree tematiche di corrente interesse: evoluzione climatica, ozono, effetti delle eruzioni vulcaniche, inquinamento ambientale. Nubi ed aerosol Per quanto attiene alla prima area il problema riconosciuto come di maggiore importanza è quello delle nubi. Le nubi, che sono sostanzialmente dei densi assiemi di aerosol, costituiscono il principale, e maggiormente incognito, fattore di controllo (feedback) degli scambi energetici nel complesso sistema costituito dall’atmosfera, dalla superficie terrestre e dallo spazio esterno. La radiazione solare diffusa dalle nubi viene in parte rinviata verso l’esterno modificando in tal modo la riflettività del sistema superficie-atmosfera e per questo aspetto tendono a raffreddarlo. D’altra parte le nubi sono esse stesse sorgenti di radiazione termica e si comportano come corpi neri emettendo radiazione infrarossa sia verso l’esterno che verso la superficie, contribuendo in modo sostanziale al cosiddetto effetto serra: ma la radianza emessa dipende dalla quarta potenza della temperatura, che a sua volta dipende dalla quota. Pertanto le nubi possono, dipendentemente dalla loro posizione, contribuire in modo positivo o negativo al bilancio energetico del pianeta e ai flussi che raggiungono la superficie. Oltretutto la loro struttura verticale è complessa e variabile, e di difficile modellazione. Largamente incognito è l’assorbimento di radiazione determinato dalle impurezze presenti. La Fig. 8 mostra in una foto da aereo presa ai Caraibi, la complessa struttura delle nubi nelle zone tropicali, e suggerisce in modo palese le difficoltà che un modellista si trova a dover fronteggiare per fornirne una adeguata simulazione matematica. La radiazione retrodiffusa da una atmosfera abbastanza trasparente perviene al ricevitore dopo aver subito un solo evento di scattering. Nella regione visibile dello spettro l’attenuazione di un fascio nell’attraversare l’atmosfera lungo la verticale e in assenza di aerosol è di qualche unità percentuale. Se il mezzo è denso, come ad es le nubi, gli echi possono pervenire al ricevitore dopo aver subito una serie di eventi di scattering e un percorso casuale, e sotto angoli diversi (Fig. 9). Per quanto riguarda il trasporto della radiazione in presenza di nubi sono state rilevate sostanziali differenze tra esperimenti e modelli che possono ripercuotersi sulla attendibilità dei modelli di evoluzione del clima. Vi è spazio per la sperimentazione. Non solo le nubi otticamente dense presentano interessanti problemi: cirri otticamente sottili presenti nell’alta troposfera, sfuggono all’osservazione con metodi passivi da terra o da satelliti, dato il forte contrasto con la più densa troposfera. La Fig. 10 mostra un esempio di tali stratificazioni osservate a Thule ma peraltro pressocchè onnipresenti globalmente. Il lidar permette di avere profili ad alta definizione di nubi parzialmente penetrabili dalla radiazione e della loro struttura esterna per quelle dense. Gli aerosol giocano un ruolo significativo nel bilancio radiativo del pianeta e costituiscono dei sensibili indicatori della struttura, composizione e dinamica dell’atmosfera. Quelli di più piccole dimensioni (nuclei di Aitken) forniscono i nuclei responsabili della successiva condensazione del vapor d’acqua e la formazione delle particelle costituenti le nubi. La regione intorno alla tropopausa è caratterizzata da minimi di temperatura che favoriscono oltre al ghiaccio, la condensazione di altre specie e la formazione di strati di aerosol otticamente sottili, analoghi ai cirri, ma di composizione anche sostanzialmente diversa. A tutte le latitudini nella bassa stratosfera sono presenti strati di aerosol composti da miscele di acqua e acido solforico, o da soluzioni ternarie, risultato della conversione in situ da gas (SO2, SO3, COS) a particella. Una volta formati, questi aerosol, tipicamente di raggio intorno a 0,2 mm, rimangono nella stratosfera per alcuni anni finché la lenta sedimentazione li porta a quote ove la maggiore presenza di acqua facilita la crescita e la scomparsa. Anche alle basse temperature della tropopausa (intorno a o minori di 200 K) queste particelle rimangono liquide, e quindi di forma sferica. La presenza di aerosol nella stratosfera aumenta fortemente come conseguenza delle eruzioni vulcaniche di tipo esplosivo: queste iniettano grandi quantità di solfati e di acqua direttamente nella stratosfera, con effetti significativi sulle sue proprietà radiative. La Fig. 11 illustra le osservazioni effettuate in modo quasi simultaneo da tre stazioni, che mostrano la diffusione globale degli aerosol stratosferici. Dalle ricerche in corso sta emergendo un ruolo chimico – fisico di queste particelle nei problemi relativi alla evoluzione dello strato di ozono, a tutte le latitudini. Tipicamente la presenza di aerosol vulcanici appare negativamente correlata con la presenza di ozono: oltre a meccanismi che postulano una interazione diretta, causa preponderante di queste correlazioni appare collegato alla dinamica delle stratificazioni presenti nella stratosfera. La loro causa è spesso da collegare alla diversa origine e al diverso percorso, e quindi alla diversa storia chimica e fotochimica di masse d’aria che all’osservazione appaiono separate verticalmente anche da poche centinaia di metri. In termini più stringenti, le ricerche relative al cosiddetto buco dell’ozono, manifestatosi in maniera drammatica e inattesa intorno al 1985 in Antartide e in modo più blando ma comunque significativo anche nell’emisfero Nord, hanno messo in rilievo il ruolo critico degli aerosol stratosferici alle basse temperature. A temperature intorno a 190 K, tipiche della bassa stratosfera antartica nei mesi da maggio a ottobre, può agevolmente condensare l’acido nitrico, mentre data la secchezza della stratosfera l’acqua residua (presente intorno a 4 parti per milione), condensa solo dopo una ulteriore discesa della temperatura a valori intorno a 185 K. Si vengono così a formare strati di PSC, rispettivamente di tipo 1 e 2, che svolgono una doppia funzione: favoriscono reazioni di chimica eterogenea che tendono a rimuovere il cloro presente da forme legate inattive (ClONO2) a forme attive (ClO), e sequestrano l’azoto liberatosi che condensa come acido nitrico tri-idrato (HNO33H2O). Queste reazioni avvengono durante la lunga notte polare: alla fine dell’inverno con l’esordio del giorno, la grande concentrazione di ClO presente attiva un ciclo catalitico con la rimozione quasi totale dell’O3 in un intervallo di quote intorno a 20 km, e del 50% nel contenuto colonnare. La Fig.13 mostra un profilo tipico di PSC osservate in Antartide. Il ruolo degli aerosol vulcanici come nuclei di condensazione delle nubi stratosferiche polari è messo chiaramente in evidenza dalla Fig.14. La figura mostra la sezione d’urto bA di nubi stratosferiche osservate a varie quote al Polo Sud, negli anni 1990, 1992, 1993. Le osservazioni del 1992 indicano un considerevole aumento di bA causato dall’aumento nella presenza dei nuclei e quindi della densità numerica delle particelle costituenti le PSC. Temperature estremamente basse caratterizzano anche la tropopausa equatoriale. Attraverso questa regione transita un continuo flusso di massa dalla troposfera alla stratosfera attraverso la branca ascendente della cella di Hadley: la tropopausa equatoriale costituisce la principale barriera ai flussi di sostanze volatili nella stratosfera e varie ricerche sono state avviate su questo argomento. Una rete di lidar piccola ma globale A partire dal 1988 il nostro gruppo ha mantenuto in funzione una piccola ma globale rete di lidar, allo scopo di effettuare un monitoraggio della bassa stratosfera esteso nel tempo. La rete è consistita di tre lidar, rispettivamente installati alla Amundsen-Scott South Pole Station (90°S), a Roma, e a Thule, Groenlandia (76°N). Il lidar installato al Polo Sud ha funzionato dal 1988 al 1994. Il lidar di Thule, installato nel 1990 è tuttora in funzione e fa parte di una ulteriore rete di stazioni denominata NDSC (Network for Detection of Stratospheric Change, costituita per iniziativa della NASA). A Roma sono in funzione o sono stati sperimentati sistemi di caratteristiche diverse. L’ arco di tempo in cui i tre lidar sono stati tutti funzionanti ha preceduto e seguito l’eruzione del vulcano Pinatubo, della qual cosa l’impresa (serendipity?) si è casualmente avvantaggiata, potendosi studiare la stratosfera in condizioni perturbate e non. Occorre dire però che alle latitudini medie, almeno nell’emisfero Nord, vi sono vari lidar in regolare funzionamento da anni mentre all’ epoca solo i due lidar menzionati erano operativi nelle zone polari. L’aereo Una rete di strumenti installati in località opportune è utile ai fini di osservare con continuità una fenomenologia specifica del posto e stabilirne una climatologia. Alcuni fenomeni tuttavia hanno un carattere fortemente aleatorio nel tempo e non sempre si manifestano laddove le circostanze o la logistica suggeriscono o impongono di sistemare la strumentazione. L’uso di un aereo consente di esplorare una vasta zona di territorio, di effettuare misure laddove, e nel periodo in cui, il fenomeno si manifesta e osservarne gli aspetti regionali. Inoltre un aereo puo portare una varietà di strumenti alcuni dei quali idonei alla misura in situ. Nel continente antartico a causa della relativa regolarità della circolazione la formazione delle PSC avviene in modo molto regolare: la formazione è praticamente controllata dalla temperatura, e questa è una funzione della quota e della latitudine e nella stagione invernale al disopra di una latitudine di circa 70°S è frequentissima la loro presenza, dato che la temperatura scende nella bassa srtartosgfera a quote inferiori a 190°K. Nella stratosfera artica la presenza di PSC è meno frequente ed è preferibilmente collegata a onde orografiche: la presenza delle montagne perturba i flussi dando luogo alla formazione di onde con conseguenti escursioni della temperatura di vari gradi. In queste situazioni l’uso di mezzi mobili consente di avvicinarsi al fenomeno e osservarlo la dove esso si manifesta. Un lidar di caratteristiche particolari (ABLE = AirBorne Lidar Experiment) è stato sviluppato e installato dal nostro gruppo su un aereo russo M55 idoneo al volo nella bassa stratosfera. L’aereo, nato per la ricognizione militare è stato reso disponibile per la ricerca scientifica e porta il nome Geophysica: può volare alla quota di 20 km. Sviluppo della strumentazione, adattamento dell’aereo e campagne di volo sono state finanziate dal Programma Nazionale Ricerche in Antartide, dall’Agenzia Spaziale Italiana edall’Unione Europea (DGXII). Il lidar è installato in una parte non pressurizzata dell’aereo, e deve funzionare alla pressione di 20 hPa e alla temperatura di – 70°C. La Fig. 15 si riferisce all’osservazione di una nube stratosferica polare, effettuata durante un volo da Rovaniemi (Lapponia) nel gennaio 1997 nell’ambito della campagna APE. Altre campagne sono state pianificate per il 1999: ai Tropici e in Antartide. Come si è già accennato un’altra zona sulla quale è concentrata l’attenzione della comunità scientifica è quella equatoriale in ragione delle basse temperature tali da determinare la condensazione di molte specie volatili. Ciò avviene in corrispondenza della branca ascendente della cella di Hadley attraverso la quale flussi d’aria penetrano nella stratosfera. La diversa origine delle masse d’aria può determinare un diverso afflusso di componenti inquinanti. L’uso del lidar dovrebbe poter fornire profili dettagliati sulla complessa struttura delle nubi e delle stratificazioni tropicali. Per concludere questa breve rassegna sulle applicazioni dei lidar, conviene accennare alle osservazioni dallo spazio. Sono stati recentemente effettuati interessanti esperimenti mediante lidar dalla navetta spaziale e dalla MIR, che hanno messo in evidenza i notevoli vantaggi di ossrvazioni globali. La principale remora all’utilizzo dei laser nello spazio è determinata dalla relativamente modesta longevità di alcuni componenti e dalla potenza richiesta. La stazione spaziale dovrebbe poter consentire l’installazioni di potenti lidar con la possibilità di manutenzione da parte degli astronauti.

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