Bufale in laboratorio

Esperimenti falsificati, dati omessi, cifre corrette ad hoc. Sono questi gli ingredienti principali delle frodi scientifiche. Un fenomeno cresciuto, negli ultimi anni, sotto la spinta di una ricerca sempre più competitiva, commercializzata e mediatizzata. Il sottile confine fra scienza e industria, infatti, spinge il ricercatore a produrre risultati utili in tempo reale. E le “bufale” – soprattutto quelle che finiscono per essere enfatizzate da alcuni organi di informazione – vengono scoperte solo in tempi lunghi. Quelli necessari per un serio esame dei dati di laboratorio. Che ne è allora dell’etica dell’impresa scientifica? Chi deve giudicare gli imbroglioni delle provette? La questione è complessa e la discussione aperta. Tanto da essere ospitata sulle pagine di Nature, che in un articolo fa il punto della situazione sui comitati per la corretta pratica della ricerca scientifica istituiti in tutto il mondo.

Le frodi accertate finora sarebbero, secondo alcuni, solo la punta di un grande iceberg, mentre per i più ottimisti si tratterebbe di episodi marginali. I dati, comunque li si voglia interpretare, non sono confortanti: tra il 1993 e il 1997 l’Office of Research Integrity (http://ori.dhhs.gov/) (Ori) americano, l’organo di controllo fondato dal National Institut of Health statunitense, ha esaminato ben 150 ricerche sospette concludendo che ben 76 di esse erano delle frodi. Il Congresso americano si occupò di falsificazione scientifica per la prima volta nel 1981, quando discusse il “caso John Long”: il ricercatore aveva ottenuto finanziamenti milionari per coltivare in vitro cellule tumorali prelevate dalle ghiandole linfatiche umane. In realtà i suoi risultati straordinari erano frutto di una truffa, visto che i tessuti utilizzati per gli esperimenti appartenevano a una scimmia.

In Europa, sono i paesi scandinavi i primi della classe per la tutela dell’etica della ricerca. Il primo comitato di controllo ad essere istituito è stato, nel 1992, il Danish Committee on Scientific Dishonesty (http://www.forskraad.dk/spec-udv/uvvu), seguito poi da analoghi uffici in Norvegia, Finlandia e Svezia. Perfino la patria dei Nobel, infatti, ha dovuto fare i conti con scienziati imbroglioni. Nel 1997 un ricercatore del Karolinska Institute, lo stesso che assegna i prestigiosi riconoscimenti, è stato accusato di aver pubblicato 14 articoli con dati falsificati. L’accusato reagì distruggendo i dati originali degli esperimenti. Anche la Germania è impegnata attivamente nel controllo delle frodi scientifiche. In particolare dal ‘97, l’anno di un grande scandalo: gli oncologi Marion Brach e Friedhelm Herrmann vennero messi sotto accusa per aver pubblicato, in ben 37 articoli, risultati per così dire riveduti e corretti. Impreparata a fronteggiare una simile emergenza, la comunità scientifica corse ai ripari: la Deutsche Forschungsgemeinschaft (http://www.dfg.de/aktuell/self_regulation.htm), la principale agenzia tedesca deputata a erogare i fondi per la ricerca, distribuì un documento a tutti i comitati nazionali per la ricerca europei proponendo l’istituzione di un organo comunitario di controllo. Sempre in Germania, la Max Planck Society (http://www.mpg.de/fehlengl.htm), che raggruppa 70 istituti di ricerca, ha definito gli estremi del reato di frode scientifica e i provvedimenti da adottare contro i truffatori. Un testo analogo esiste anche in Gran Bretagna, redatto su proposta dei membri del Medical Research Council (http://www.mrc.ac.uk).

Il problema delle frodi esiste, dunque. E così anche la volontà delle grandi istituzioni scientifiche di stanarle e di punire gli autori degli inganni. Tuttavia non è facile che tutti i nodi vengano al pettine. Da indagini condotte fra i ricercatori, infatti, è emerso che, nonostante in molti siano a conoscenza di casi sospetti, la grande maggioranza non ritiene opportuno denunciarli. Un esempio per tutti. Nel 1995, su 300 ricercatori norvegesi, il 22 per cento ha dichiarato di essere a conoscenza di una frode scientifica. Ebbene, il Comitato norvegese per la disonestà scientifica ha ricevuto solo nove denuncie dal 1994 a oggi. Del resto fare una soffiata su un collega, o su un professore, anche quando si è convinti dei propri sospetti, non è cosa da poco. C’è il rischio di dare il via a indagini lunghe, che il più delle volte si concludono con un nulla di fatto. E c’è anche il timore di giocarsi la carriera accademica. Tutti aspetti, questi, che negli Stati Uniti avrebbero fatto naufragare molte denuncie e che per questa ragione sono stati presi seriamente in considerazione dai vari comitati europei. Nei documenti redatti negli ultimi anni, infatti, si fa riferimento anche alla protezione dello “spione” da possibili ritorsioni accademiche.

Ma c’è un’altra questione che riguarda le indagini e che non è di facile soluzione. Chi deve condurre le inchieste? Se si considera il frodatore scientifico un truffatore a tutti gli effetti, allora a giudicare deve essere la giustizia ordinaria. In caso contrario altri scienziati saranno chiamati a pronunciarsi sui metodi seguiti e i risultati ottenuti da un loro collega attraverso indagini interne alla comunità scientifica.Una volta accertata la colpa si pone però un altro problema: quale debba essere la natura e l’entità del risarcimento che gli scienziati riconosciuti colpevoli devono versare. Le ipotesi sono molte. In Germania, per esempio, gli esperimenti di Brach e Herrmann sono stati scrupolosamente verificati, e i risultati corretti saranno pubblicati sul Plant Journal. L’iniziativa, anche se ad oggi rimane un caso isolato, ha raccolto molti consensi fra le organizzazioni di ricercatori europei e americani.

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