Guerra totale ai superbatteri

I batteri stanno diventando sempre più resistenti agli antibiotici. Malattie che sembravano ormai sconfitte dalla moderna medicina, come la tubercolosi e la polmonite, stanno ritornando più forti e più pericolose che mai, e già si contano le prime vittime. Da decenni gli scienziati danno l’allarme sulle conseguenze catastrofiche che possono derivare dall’abuso di questi farmaci, prefigurando l’evoluzione di una nuova stirpe di batteri resistenti. E questa previsione si è puntualmente verificata.

Sino ad oggi, la guerra contro questi veri e propri “superbatteri” si è basata su un’ipotesi fondamentale: questi microrganismi hanno sviluppato delle forme di resistenza a causa del cattivo uso che i pazienti fanno degli antibiotici. La colpa, insomma, sarebbe in parte dei medici, troppo di manica larga nelle prescrizioni, e dei pazienti, che troppo spesso interrompono la terapia non appena sentono scomparire i sintomi. Errore, perché così facendo si permette ai batteri superstiti, quelli resi più resistenti da mutazioni genetiche, di riprodursi e di trasmettere questa loro caratteristica alla generazione successiva: quella dei superbatteri, appunto.

Una volta stabilite le cause, la precauzione più ovvia per contrastare il fenomeno sembrava quella di limitare l’uso di questi farmaci, o almeno di promuoverne un uso più razionale. Ma si tratta di una precauzione sufficiente? Secondo Anthony Hart, ricercatore del Center for Comparative Infectious Diseases dell’Università di Liverpool, questo tipo di soluzione non risolve il problema. E spiega il perché.

In un articolo pubblicato su Nature, infatti, il ricercatore inglese rivela di aver scoperto la presenza di batteri resistenti anche in popolazioni di roditori in teoria mai esposte ad antibiotici. Secondo Hart, “l’esposizione a un antibiotico rende sì possibile la generazione e la diffusione di geni resistenti in una popolazione di batteri, ma questa condizione non è necessaria”. Le due popolazioni di roditori selvatici studiati da Hart, infatti, non erano mai state esposte ad antibiotici. Eppure ben sette specie di batteri diversi trovati nelle loro feci hanno dimostrato la capacità di sopravvivere ai farmaci.

Perché mai una popolazione di batteri non esposta ai farmaci riesce ad acquisire le mutazioni genetiche necessarie per difendersi dagli antibiotici? “Una spiegazione potrebbe essere rappresentata dalla presenza, nello stesso organismo, di altri microrganismi che, nel corso dell’evoluzione, hanno prodotto degli antibiotici naturali”, spiega Hart a Galileo. “Già altri ricercatori hanno dimostrato che popolazioni di batteri non esposte ad antibiotici riescono a conservare la resistenza per lunghi periodi di tempo. Ma è strano, però, che un fenomeno del genere possa spiegare una tale prevalenza di batteri resistenti nelle popolazioni di roditori che ho studiato”. Il meccanismo attraverso cui si è sviluppata questa resistenza resta quindi ancora incerto. E ancora più incerta rimane la strada da seguire per rendere di nuovo efficaci gli interventi farmacologici.

Finora la questione era abbastanza semplice: più antibiotici usiamo e più facilmente i batteri imparano a difendersi, più rapidamente si trasmettono le informazioni “di sopravvivenza” e più a lungo riescono a mantenerle. Da qui l’ipotesi che limitare l’uso degli antibiotici avrebbe potuto ritrasformare i superbatteri in batteri di nuovo sensibili agli antibiotici. Oggi, i risultati di Hart fanno sembrare questa logica troppo semplicistica. “Io sono ottimista – conclude però Hart – e sono convinto che possiamo ancora fare buon uso degli antibiotici che abbiamo finora scoperto e che scopriremo in futuro. Ma dobbiamo adottare regole più rigide sul loro uso. Ed è importante che i diversi paesi non lavorino singolarmente, ma che si risolva il problema globalmente, visto che i superbatteri non hanno difficoltà a varcare le dogane”.

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