Uno, dieci, cento film da salvare

Quattro anni fa la Fiaf, la Féderation Internationale des Archives du Film, lanciò un allarme: buona parte dei film girati prima degli anni Cinquanta rischia di finire letteralmente in fumo. Un pericolo reale, se si pensa che il nitrato di cellulosa adoperato fino a quarant’anni fa per le pellicole è un materiale altamente infiammabile e facilmente soggetto all’autocombustione anche a temperature relativamente basse. Ad aggravare la situazione si aggiunge l’instabilità chimica della celluloide, che favorisce il degrado dell’emulsione a base di gelatina animale, mentre l’azione combinata di muffe, funghi e umidità corrode con facilità la pellicola fino a ridurre tutto in polvere. Ma ad essere in pericolo non sono soltanto i film girati nella prima metà del secolo. Studi recenti hanno infatti dimostrato che il rischio ‘estinzione’ minaccia anche film a colori girati dopo il 1950: il fenomeno di sbilanciamento dei colori, noto come fading, e la sindrome acetica sono degenerazioni tipiche delle pellicole in triacetato in uso fino agli anni Ottanta.

Cosa fare per arginare questa catastrofe? Per avere un’idea di quello che si sta facendo, Galileo è andato al laboratorio di restauro di Cinecittà e alla scuola sperimentale di cinematografia che ospita la Cineteca nazionale. “Ormai il settanta per cento dei film precedenti agli anni Trenta è irrimediabilmente perso”, afferma Mario Musumeci, responsabile del settore conservazione della Cineteca, “ma la denuncia della Fiaf è servita in qualche modo a risvegliare le coscienze. La Biennale di Firenze, l’operazione ‘Cento film per cento città’, grandi sponsorizzazioni come quelle di Mediaset e Philip Morris hanno in effetti permesso di salvare capolavori indimenticabili tra cui Sciuscià, Riso amaro, La dolce vita, Senso. “Un buon risultato – commenta Musumeci – ma ancora troppo poco se si pensa che migliaia di pellicole di autori meno noti rischiano di scomparire nell’indifferenza generale”.

Solo in questi ultimi anni, dunque, si sta diffondendo una vera e propria cultura della conservazione: i laboratori che si occupano della rigenerazione dei film sono pochi e il procedimento del restauro è quasi sempre lungo e costoso. “La procedura dipende dalle condizioni del film e dal tipo di intervento che viene eseguito”, spiega Carlo Cotta, consulente del laboratorio di restauro di Cinecittà, “perciò anche i tempi oscillano da un minimo di qualche mese ad oltre due anni di lavorazione, con una spesa che varia da quaranta a più di centocinquanta milioni”.

Tempi e costi dipendono dal materiale di partenza, cioè dallo stato di conservazione del film e dalla quantità di copie positive e negative disponibili come risorsa di supporto all’originale. E siccome ogni pellicola ha una storia a sé, è praticamente impossibile definire uno standard universale di intervento, valido in ogni situazione. “Sarebbe più corretto, piuttosto, parlare di soluzioni ad hoc”, chiarisce Cotta, “perché procediamo diversamente a seconda della situazione, cercando di adottare sempre la strategia più efficiente”.

E spesso si tratta di un lavoro molto articolato. “Il restauro di un film”, aggiunge Musumeci, “è solo in minima parte un lavoro di tipo meccanico e tecnico. Esattamente come per un quadro, un affresco e, in generale, un’opera d’arte – è difficile stabilire il confine fra intervento di conservazione e ricostruzione soprattutto se la pellicola di partenza è in condizioni molto deteriorate”. Naturalmente il materiale viene prima sottoposto a scrupolose analisi fisico-chimiche ma in alcuni casi è comunque impossibile determinare con assoluta certezza le condizioni originarie. Perciò il rischio di falsificare il lavoro dell’autore è un pericolo reale che va messo in conto. E limitato quanto più possibile ricorrendo a tutte le fonti di documentazione disponibili.

I lavori di intervento vero e proprio sul film partono da un’attenta verifica delle condizioni del negativo originale. Lacerazioni, macchie, fotogrammi mancanti, righe sull’emulsione e sul supporto, giunte fatte con lo scotch, perforazioni rotte: questi i problemi più frequenti che affliggono le vecchie pellicole. E siccome occorre innanzitutto garantire la loro integrità, prima di ogni altra cosa vengono sostituite le giunte, riparate le perforazioni rotte o mancanti e rinforzate quelle in condizioni precarie. Per il restauro dei denti del negativo, ad esempio, si usano pezzi di pellicola trasparente tagliata esattamente in misura e forma identiche alle parti da sostituire o rinforzare, facendo combaciare perfettamente le perforazioni che, altrimenti, potrebbero creare intoppi durante i passaggi in macchina. “Durante questa operazione”, spiega ancora Cotta, “bisogna fare molto attenzione per evitare che le parti della nuova pellicola, applicate su quelle rotte, debordino ricoprendo la gelatina degli altri fotogrammi.

Il passo successivo consiste in un’accurata opera di pulizia, necessaria per rimuovere lo strato di grasso che si è progressivamente depositato sopra la pellicola opacizzando le immagini e togliendo loro luminosità, trasparenza e contrasto. Con panni imbevuti di soluzioni chimiche, di solito a base di tricloroetano, si tamponano con delicatezza le due facce del negativo, strofinando leggermente soprattutto sul lato emulsione. Per ottenere la massima trasparenza si procede, poi, ad un ulteriore lavaggio in macchina, immergendo totalmente il film in uno speciale liquido detergente.

A questo punto si può dire quasi conclusa la fase di rigenerazione del supporto, ma non il restauro perché bisogna ancora sostituire i fotogrammi danneggiati o mancanti. Per pianificare gli interventi successivi viene stampata e proiettata una copia zero del negativo. Nell’occasione, viene anche registrata su supporto digitale la colonna sonora, il cui restauro si esegue con appositi software che consentono di eliminare quasi totalmente i disturbi dovuti al deterioramento del negativo ottico.

“La proiezione di una prima copia del film”, aggiunge Cotta, “serve anche per individuare quei granelli di polvere rimasti incollati nell’emulsione, che vengono rimossi con l’aiuto di piccoli raschietti acuminati. E’ un’operazione molto delicata e che farà sparire quelle fastidiose macchioline bianche chiamate in gergo spuntunature”.

Per i fotogrammi più rovinati, invece, bisogna approntare interventi di ricostruzione, che nei casi più difficili vengono eseguiti al computer. Una volta stampato il lavander, cioè uno speciale master a basso contrasto e grana molto fina, il lavoro si svolge in un laboratorio specializzato per il trattamento in digitale. Qui i tecnici usano una macchina molto sofistica, il Cineon, generalmente adoperata per gli effetti speciali. “I costi del Cineon sono però molto elevati”, spiega Musumeci: “per ripristinare 150 metri di pellicola, equivalenti ad appena otto minuti di film, bisogna spendere quasi dieci milioni. E per di più i risultati non sono sempre soddisfacenti. Perciò si cerca di limitare quanto più possibile il ricorso a tecniche digitali anche se, in molti casi, questa rimane l’unica soluzione”.

Con l’integrazione delle parti rovinate, il negativo del film si considera definitivamente restaurato. Ma prima di passare alla stampa delle copie di salvezza, su supporto in poliestere, vengono eseguite ulteriori prove per correggere la luminosità e il contrasto ed ottenere la risoluzione più omogenea all’originale. I master così ottenuti diventano, d’ora in poi, i duplicati di riferimento e il vecchio negativo può finalmente riposare nelle condizioni di temperatura e umidità più idonee al suo mantenimento.

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