C’è una scuola nella foresta

Fabbrica dell’Indio, Antologia della foresta, il Libro degli alberi e il Libro dei pesci. Ecco i testi sui quali studiano i bambini indios delle scuole della foresta. Scuole dove si impara il portoghese, la matematica e la geometria, ma anche la storia dei tempi in cui, prima dell’arrivo dei conquistadores, “gli animali parlavano”. Una porta aperta verso il mondo dei bianchi, per imparare a conoscerlo e a difendersi da esso senza perdere la propria identità. Per poter andare in città senza avere paura di smarrirsi o di esser sopraffatti. E un giorno magari iscriversi all’università per diventare medici o avvocati. Quel giorno è ancora lontano, ma le scuole della foresta sono già più di cento, distribuite in una ventina di villaggi in Amazzonia, dove vivono i Ticuna, e in Acre, una regione divisa tra Bolivia e Perù abitata da ben quattordici etnie indie. Per raccontare questa esperienza didattica, unica nel suo genere, alcuni di questi insegnanti sono venuti in Italia, dopo avere viaggiato anche per giorni interi nella foresta. Tre ticuna e un kaxinawá sono stati i protagonisti del convegno romano promosso a novembre dal Comune di Roma, dal ministero della Pubblica Istruzione, dalla Regione Lazio e dall’Associazione “Voci della Terra”.

Uno dei maestri indios si racconta così: “Mi chiamo Costantino Ramos Lopes e sono ticuna. Da quattro anni insegno e sono qui a nome dell’associazione Ogptb, l’Organizzazione generale dei professori ticuna bilingui. Abbiamo iniziato nell’86, adesso lavoriamo con circa 300 insegnanti”. Dall’88 il Brasile riconosce alle popolazioni indigene dei diritti, alla differenza culturale e religiosa e all’educazione sul territorio. Ma solo sulla carta. Prima che i “professori nella foresta” avviassero il loro progetto didattico, sia le missioni che le scuole pubbliche mostravano dei limiti: primo fra tutti quello di avere solo insegnanti bianchi. Ma anche quello di trovarsi molto lontane dai villaggi. Ora molte cose sono cambiate, ma la strada è ancora lunga. “Il nostro obiettivo – dice ancora Lopes – è che tutti gli insegnanti rurali abbiano il titolo di studio, e quindi il riconoscimento ufficiale del loro lavoro. Non solo. Vogliamo dargli la formazione necessaria per accedere all’università. Ultimamente in Brasile è stata fatta una legge che permette con un corso integrativo, di terzo livello, a questi insegnanti, che hanno solo un diploma magistrale, di iscriversi all’università senza dover superare un esame di ammissione”.

I Ticuna sono la popolazione india più consistente in Amazzonia. Il loro territorio si estende tra il Brasile, il Perù e la Colombia. Ma non si sa da dove venga la loro lingua, che non ha alcuna radice in comune con le altre lingue amazzoniche. L’organizzazione indigena ticuna conta circa trentamila persone in Amazzonia, quindi in Brasile, settemila in Bolivia e cinquemila in Perù. Parlano tutti la stessa lingua e per diversi anni sono stati appoggiati nel loro primo tentativo di alfabetizzazione dal Consiglio missionario indigeno. “Che però non è riuscito a darci quello che volevamo”, precisa Ramos Lopes: “ora abbiamo capito che dobbiamo essere noi a fare qualcosa per salvare la cultura e la lingua ticuna. Nessuno può farlo al nostro posto. Il nostro è un lungo cammino”.

Lopes continua ricordando la sua infanzia: “I nostri genitori non sanno leggere né contare. Sanno pescare, arpionare un pesce e costruire canoe. I miei insegnanti furono forse tra i primi a fare questo mestiere e avevano sicuramente un’istruzione inferiore a quella che io ho adesso. Ora tutti i bambini indios vanno a scuola. Alcuni di loro continueranno sino all’università, riceveranno cioè una istruzione di tipo occidentale ma al tempo stesso si porteranno dietro il bagaglio culturale indigeno”.

Con questo obiettivo era inevitabile ricorrere al bilinguismo, lingua ticuna e lingua portoghese. Anche se con qualche variazione sul tema. “In principio – spiega Lopes – insegnavamo il portoghese ai bambini ticuna leggendo e traducendo i testi delle scuole brasiliane. Ma questi libri parlavano di cose di un altro mondo, lontane dalla loro vita. E noi dovevamo sempre interpretarli. Così abbiamo pensato di crearci un nostro materiale didattico, sempre in portoghese. Ora i testi raccontano cose e storie della foresta, parlano degli alberi, dei fiumi, degli animali, della natura: è tutto quello che vediamo intorno a noi”.

Edson Medeiros, di etnia kaxinawá, ha viaggiato nove giorni nella foresta per andare a prendere l’aereo e venire in Italia a raccontare la sua esperienza. Ixã, questo il suo nome indio, insegna nella sua comunità all’interno dell’Acre. Gli Kaxinawá sono circa quattromila. “Dal ‘75 – racconta – cominciò la nostra lotta affinchè ogni comunità indigena avesse terra a sufficienza per vivere. Nacquero allora le prime scuole. Si formarono diverse cooperative agricole. Si cercò anche, con scarso successo, di dare vita a un organismo unitario di tutti i popoli indios. Poi chiedemmo aiuto alla Norvegia, tramite un volontario, per avviare un corso per insegnanti. L’obiettivo principale è la conservazione della nostra cultura e al tempo stesso l’apprendimento della lingua portoghese. Anche noi abbiamo un nostro materiale didattico, con testi di storia indigena a partire dai primi contatti con gli occidentali. I testi sono scritti da studenti e insegnanti. Durante la settimana facciamo tre giorni di studio in classe e tre giorni di pratica all’aperto. Siamo già alla seconda generazione di alunni”, conclude Ixã: “tutti giovani che hanno potuto superare la paura della civiltà dei bianchi”.

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