Una scatola per volare sicuri

13 gennaio 2000: un bimotore svizzero precipita in mare al largo delle coste libiche con a bordo 38 passeggeri e 3 membri dell’equipaggio. Muoiono in 18. Tre giorni prima un altro aeroplano svizzero si era schiantato subito dopo il decollo dall’aeroporto di Zurigo. Secondo testimoni oculari il velivolo della Crossair avrebbe preso fuoco quando era ancora in volo. Dieci morti. Altro continente altro disastro: il 15 gennaio un aereo del Costa Rica subito dopo il decollo precipita sulla periferia di San José. Delle 20 persone a bordo muoiono in quattro.Il nuovo anno non è iniziato nel migliore dei modi per l’aviazione civile. Nel solo mese di gennaio tre incidenti mortali e 11 che, pur senza gravi conseguenze, destano preoccupazione. Per capire le cause dei disastri veri e di quelli mancati si ricorrerà, come sempre, alla scatola nera. Un oggetto misterioso che di solito entra in scena quando ormai è troppo tardi.Ma da qualche anno il ruolo della “black box” sta cambiando. Non più scrigno in cui custodire i segreti di un incidente, ma strumento di prevenzione. Già ora alcune compagnie aeree usano i dati registrati di routine nelle scatole nere per migliorare la sicurezza dei loro voli. Galileo ha visitato i laboratori di Meridiana, compagnia aerea di Olbia che ha un programma particolarmente avanzato per la prevenzione attraverso lo studio dei dati di volo.

La scatola nera nasce alla fine degli anni Sessanta. A dispetto del nome, da subito il suo involucro è arancio con strisce gialle fosforescenti. Un colore pensato per facilitarne il ritrovamento dopo un impatto. L’equivoco sul nome nasce perché tutta l’elettronica degli aerei era (ed è) contenuta in scatole metalliche di colore nero. L’unica che di nero non ha nulla è proprio la “black box”. Per questo gli addetti ai lavori preferiscono chiamarla “flight data recorder” (registratore dei dati di volo). Il flight data recorder di prima generazione di dati ne registrava davvero pochi. Quelli essenziali per poter ricostruire le ultime fasi prima di un incidente: velocità, altitudine, accelerazione verticale, orario, inizio e fine delle comunicazioni radio. Questi parametri venivano incisi da un pennino su un nastro di titanio simile ai fogli di alluminio per alimenti. Il titanio, uno dei metalli più duri in natura, garantiva che le informazioni sopravvivessero anche agli incendi e alle violente collisioni. A metà degli anni Settanta si passa al digitale. I dati, che ora possono essere molto più abbondanti, sono registrati su un nastro simile a quello delle audiocassette, più versatile ma assai meno resistente del titanio. Per questo si creano involucri a prova di “crash”: il guscio che contiene il nastro sopporta temperature di 1100 gradi centigradi e un carro armato potrebbe passarci sopra senza riuscire a scalfirlo.

Le scatole nere dell’ultima generazione vedono la luce alla fine degli anni Ottanta. Il nastro magnetico è sostituito dai microchip e il numero dei dati registrati cresce ancora fino a sfiorare 300 parametri. Tutto ciò che può aiutare a ricostruire il comportamento dell’aeroplano viene memorizzato: dall’orientamento della prua al funzionamento del sistema antighiaccio. Ma soprattutto la black box di terza generazione è più affidabile e ha bisogno di minore manutenzione perché non ci sono parti meccaniche in movimento.

“Ma la vera novità”, spiega il comandante Giampiero Traverso, capo del Servizio di sicurezza aerea di Meridiana, “si chiama Oqar, una sigla che sta per Optical Quick Access Recorder”. All’Oqar arrivano gli stessi dati che vengono memorizzati dal flight data recorder. Mentre però la scatola nera è progettata per resistere a un eventuale incidente o comunque per essere “letta” solo in occasioni straordinarie, l’Oqar registra i dati su un Compact Disck e permette di accedervi 24 ore su 24. “Il ruolo principale del flight data recorder non è più quello di svelare le cause di un crash”, dice il comandante Traverso. “Sono sempre di più le compagnie che analizzano i dati per ridurre al minimo le possibilità di incidente. In Europa lo fanno British Airways e la scandinava Sas”.

L’operazione è di una semplicità estrema e in Meridiana viene ripetuta ogni sera al rientro della flotta. Basta aprire il portello sotto il muso dell’aereo ed entrare nel suo cuore elettronico. Qui, in uno spazio grande quanto una cabina del telefono sono concentrati tutti i dispositivi che gestiscono il volo: il computer del pilota automatico, quello che controlla l’impianto idraulico dei timoni e, appunto, l’Oqar. “Basta inserire il disco in un personal computer per sapere se c’è stata qualche anomalia”, spiega Traverso. “Un apposito software analizza i dati dell’Oqar e ci segnala se sono stati superati i valori limite stabiliti dalla compagnia. Per esempio, se si è volato troppo alto o troppo veloce”. E quali sono le conseguenze? “Convochiamo i piloti per capire insieme a loro cosa può essere successo. Se la responsabilità dell’anomalia è umana si interviene con l’addestramento, se dipende dalla macchina si predispongono interventi tecnici”.

Però, questo tipo di analisi da parte delle compagnie non sempre trova d’accordo i piloti e i loro sindacati. La legge infatti proibisce che si controlli a distanza un dipendente al lavoro. “I nostri piloti invece sono ben felici di collaborare”, dice Traverso, “anzi spesso sono loro a segnalarci episodi dubbi e a chiedere di analizzare insieme i dati del loro volo. In situazioni particolarmente critiche si può persino rivivere l’esperienza inserendo il Cd in un simulatore di volo”. Ma perché tanto impegno? “In tutto il mondo si verifica un incidente ogni milione di voli, ma il traffico aereo è destinato ad aumentare molto rapidamente e presto, pur conservando gli attuali standard di sicurezza, si avrà l’impressione che l’aereo sia più pericoloso. Per questo”, conclude il Comandante Traverso, “bisogna insistere sulla prevenzione e ridurre di un decimo il numero di incidenti”.

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