L’attenzione mancata alle donne

Nell’Africa sub-sahariana, la zona dove è concentrato circa il 70 per cento della popolazione infettata da Hiv, per 10 uomini malati ci sono 12-13 donne nelle stesse condizioni. I dati provengono dall’ultimo rapporto “Aids epidemic update” dell’Organizzazione mondiale della sanità (http://www.who.int/). Ma nello stesso rapporto si sottolinea come i dati sul contagio femminile siano in realtà sottostimati dal momento che le uniche donne monitorate sono quelle in stato interessante. Oltretutto, la sterilità si diffonde progressivamente proprio tra le malate di Aids o le sieropositive e quindi c’è un enorme bacino di potenziali pazienti che non viene neanche preso in considerazione. E’ dunque sotto gli occhi di tutti, e non solo in Africa, un’emergenza donna nella lotta contro l’Aids. Un’urgenza che mette a nudo una realtà piuttosto sconfortante: i dati sui meccanismi messi in atto dall’organismo femminile per combattere l’attacco dell’Hiv sono pochissimi. E scarse sono le spiegazioni che diano conto del diverso sviluppo dell’infezione e risposta alle terapie tra maschi e femmine. Studi e ipotesi su questo fenomeno sono stati al centro dell’attenzione anche al meeting annuale più atteso da quanti sono impegnati nella lotta contro l’Aids, la 7° Conferenza sui retrovirus e le infezioni opportunistiche tenutasi alla fine di gennaio scorso negli Stati Uniti, a San Francisco.

“Non dobbiamo meravigliarci se mancano i dati sulle donne”, afferma Alison Gray, direttore del progetto Aids Treatment, un’organizzazione inglese di volontariato che fornisce sostegno e informazione per sieropositivi e malati di Aids, durante la conferenza di presentazione alla stampa europea dei risultati presentati al meeting americano, “la maggioranza degli studi epidemiologici e dei trials per provare l’efficacia di nuove terapie vengono effettuati sugli uomini, mentre finora le donne sono state oggetto di studio solo in quanto possibile agente di contagio per il feto”. Parole dure pronunciate da chi vive in prima persona entrambe le situazioni: essere donna e sieropositiva.

A San Francisco, non solo Gray ma anche altri ricercatori hanno parlato del diverso sviluppo della malattia nelle donne. Tra gli studi presentati quello dei ricercatori della Johns Hopkins University di Baltimora ha dimostrato come l’organismo femminile mantenga la carica virale dell’Aids più bassa rispetto a quanto accade nell’uomo. In altre parole, nonostante la probabilità di infettarsi e di morire rimanga la stessa per entrambi i sessi, la quantità di virus che circola nel sangue di una donna è inferiore a quella di un uomo. Mentre in un’altra ricerca, apparsa su Nature Medicine di gennaio e presentata al meeting, un team del Fred Hutchison Cancer Research Center (http://www.fhcrc.org/) di Seattle in collaborazione con l’Università di Nairobi ha constatato che le donne del Kenya sono spesso infettate da varianti multiple del virus al contrario degli uomini, che vengono colpiti solo da un tipo di virus. Una possibile spiegazione è la maggiore quantità di cellule T CD4 presenti naturalmente nell’organismo femminile, cellule che riconoscono il virus e lo attaccano, ma che sono loro stesse un target per l’Hiv. Attaccate con forza queste potrebbero scatenare una risposta immune massiccia che metterebbe sotto pressione il virus forzandolo a cambiare tipologia.

In ultimo Preston Marx del centro di ricerche contro l’Aids Aaron Diamond (http://www.adarc.org/) di New York ha dimostrato che nelle femmine di scimmia le iniezioni di estrogeni garantiscono immunità dall’infezione. Agendo sullo spessore delle cellule della membrana vaginale, infatti, gli ormoni ispessiscono le barriere dell’organismo contro la variante del virus che attacca questi animali. Gli scienziati non sono ancora in grado di dare significato a tutte queste informazioni, che comunque considerano estremamente importanti soprattutto nella prospettiva della realizzazione di un vaccino. “Un traguardo ancora molto lontano”, ha proseguito Gray, “ma su cui è fondamentale impegnarsi”. Per sconfiggere l’infezione in Africa, infatti, non bastano le medicine, neanche quelle di nuova generazione. Serve invece l’educazione alla profilassi e soprattutto metodi che possano garantire alla donna una reale indipendenza nella scelta di proteggersi contro l’infezione.

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