Porte chiuse all’Hiv

Nella lotta all’Aids molte sono le domande e poche le risposte. Ma soprattutto ci sono dei veri e propri misteri immunologici, casi all’apparenza inspiegabili di persone più volte esposte al contagio che però non contraggono il virus. Come dimostra, per esempio, lo studio condotto su 1900 prostitute di Nairobi, rimaste “miracolosamente” immuni al virus nonostante l’assenza di precauzioni. Per questo e per altri casi non c’è ancora una spiegazione certa ma in molti pensano che il segreto sia nel sistema immunitario il quale, stimolato dalle continue aggressioni dell’Hiv, si difende mettendo in atto meccanismi naturali contro il virus. A risolvere questi enigmi si dedica da più di dieci anni Lucia Lopalco, immunologa al San Raffaele di Milano (http://www.fondazionesanraffaele.it), che ora ha individuato un anticorpo in grado di impedire all’Hiv di entrare nelle cellule. Il suo studio, pubblicato lo scorso 15 marzo su Journal of Immunology (http://www.jimmunol.org/), svela il meccanismo di scudo contro l’infezione messo a punto naturalmente da alcuni organismi.

Dottoressa Lopalco, qual è l’idea alla base della sua ricerca?

“Il concetto, dal punto di vista teorico, è semplice: per combattere l’Hiv bisogna impedirgli di entrare nelle cellule. Per introdursi, il virus cerca vie d’accesso sulla superficie cellulare: le prime che individua sono il recettore Cd4, scoperto negli anni Ottanta, e la proteina Ccr5, che i ricercatori hanno isolato solo nel 1996. Quando riesce a entrare nella cellula inizia a riprodursi e a mutare, in modo da riconoscere anche altri ingressi cellulari. Queste mutazioni dell’Hiv sono estremamente aggressive e virulente. Sfruttando queste scoperte ho cominciato ad analizzare l’interazione fra virus e cellula, cercando di scoprire un “segnale” immunologico. Ovvero un meccanismo per chiudere le porte in faccia all’Hiv, nascondendogli le vie d’accesso principali”.

E l’anticorpo da lei scoperto riesce in questo compito?

“Perfettamente. L’anticorpo si lega alla proteina Ccr5 e nasconde così questa entrata sulla superficie cellulare. Il meccanismo con cui ciò avviene non è ancora del tutto chiaro, ma quando il virus arriva non “vede” l’ingresso e non riesce quindi a introdursi. Questo vale però solo durante le prime fasi dell’infezione: dopo poche ore iniziano infatti a circolare nell’organismo le copie mutate del virus, che aggrediscono le cellule alla ricerca di altre vie d’accesso. Per questo motivo l’anticorpo è efficace solo se si agisce tempestivamente”.

La sua scoperta può spiegare i casi di autoimmunità all’Hiv?

“Solo alcuni. Mentre la proteina Ccr5 è una sostanza costitutiva – presente cioè in tutti gli esseri umani e in gran parte degli animali – l’anticorpo è raro. Nel nostro studio abbiamo esaminato 90 persone che, nonostante ripetuti contatti con il virus, sono rimaste immuni. Ma solo in sei di queste abbiamo trovato l’anticorpo. Gli altri casi rimangono dei veri misteri immunologici, su cui bisogna ancora lavorare. Per pochi fortunati poi la spiegazione è genetica. Esiste, per esempio, la cosiddetta “mutazione Delta 32” della Ccr5: alla proteina mancano 32 basi e quindi il virus non la riconosce. E non riesce a entrare”.

Quali sono le prospettive che apre la sua scoperta?

“Da una parte c’è la possibilità terapeutica, dall’altra quella – più allettante ma ancora lontana – del vaccino. Nel primo caso si potrebbe usare l’anticorpo come farmaco, ma solo nelle prime ore di contagio: in fase tardiva il virus, come detto, sfrutta altre vie d’accesso alla cellula. Nel secondo caso, invece, si può pensare di stimolare il sistema immunitario in modo da obbligarlo a produrre autonomamente l’anticorpo. Bisogna cioè mettere a punto un vaccino preventivo: una via difficile perché ancora non sappiamo come agire efficacemente sull’organismo”.

Su quali di queste due strade proseguirà le sue ricerche?

“Teoricamente su entrambe. Anche se nella pratica è difficile dire quale sarà il futuro del nostro laboratorio. Negli ultimi due anni l’Istituto Superiore della Sanità ha finanziato la nostra équipe di ricerca – solo 5 persone – con 130 milioni all’anno, una cifra che ora non è più sufficiente, specie se si vogliono esplorare entrambe le soluzioni”.

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