Cura del ferro per l’effetto serra

Chi è abituato a considerare le foreste pluviali sudamericane e asiatiche come il solo “polmone verde” della Terra, si dovrà ricredere. Un altro importante meccanismo di rimozione dell’anidride carbonica atmosferica è in azione negli oceani a opera del fitoplancton, un insieme di numerose specie di microscopici organismi vegetali in grado di svolgere la fotosintesi. Agire sui meccanismi che regolano la vita oceanica, quindi, potrebbe contribuire a risolvere i problemi legati all’effetto serra: se si riuscisse ad aumentare, anche di una piccola frazione, la quantità di anidride carbonica assorbita dai microrganismi oceanici per la fotosintesi, si potrebbe dare un contributo notevole alla “ripulitura” dell’atmosfera, sempre più satura di questo gas.

E’ questo il principio che ha guidato un gruppo di oceanografi a testare “l’ipotesi del ferro”, l’idea cioè che sia un alto livello di questo metallo nelle acque a permettere al plancton di “mangiare” CO2, come aveva ipotizzato nel 1990 l’oceanografo statunitense John H. Martin. Ora dopo anni di ricerche sul campo Philip W. Boyd della University of Otago in Nuova Zelanda e numerosi collaboratori appartenenti a gruppi di ricerca di sette diversi paesi pubblicano su Nature i risultati dell’esperimento Soiree (Southern Ocean Iron-Release Experiment): enormi iniezioni di ferro nelle acque oceaniche che hanno aumentato il tasso di assorbimento della CO2 atmosferica da parte del fitoplancton.

Come primo passo, i ricercatori hanno individuato una regione del settore australiano-pacifico dell’Oceano Antartico con basse concentrazioni di ferro e alti livelli di macronutrienti (nitrati, fosfati e silicati). Qui il fitoplancton mostrava chiari segni di carenza di ferro. L’esperimento, iniziato nel febbraio 1999, ha coinvolto un’area di circa 50 chilometri quadrati “fertilizzata” con una soluzione in acqua di mare contenente 3813 chili di solfato di ferro eptaidrato, a cui si sono aggiunte altre tre iniezioni per un totale di quasi nove tonnellate di sale ferroso. I controlli e le campionature delle acque sono proseguiti per 13 giorni con prelievi dentro e fuori la zona interessata fino a una profondità di 150 metri.

Già ventiquattr’ore dopo la prima fertilizzazione, i ricercatori hanno osservato un lieve aumento del tasso di fotosintesi e dunque dell’assorbimento di anidride carbonica. Secondo Andrew J. Watson della University of East Anglia (Gran Bretagna) “questi sono i primi dati, relativi a un intero ecosistema, che dimostrano che l’abbattimento della CO2 superficiale – mediato da specie viventi – risponde fortemente alla disponibilità di ferro nell’Oceano Antartico”. Tramite osservazioni satellitari, inoltre, Edward R. Abraham, del National Institute for Water and Atmospheric Research in Nuova Zelanda, e i suoi collaboratori hanno evidenziato una insolita “fioritura” di fitoplancton che si estendeva lungo una striscia di circa 150 chilometri che partiva proprio dalla zona fertilizzata.

Tuttavia, rimane incerta la quantità di CO2 effettivamente assorbita e fissata a fronte di una data quantità di ferro aggiunto. Inoltre, l’esperimento Soiree non ha confermato il punto fondamentale dell’ipotesi del ferro, secondo il quale, in seguito a una accresciuta attività fotosintetica da parte delle grandi diatomee, deve osservarsi un flusso di materiale organico particellare, a base di carbonio, verso le zone più profonde della regione interessata dal fenomeno. L’idea di poter rimediare all’effetto serra fertilizzando il fitoplancton oceanico è affascinante. Tuttavia, come avverte Sallie Chisolm del Massachusetts Institute of Technology, “gli oceani sono un sistema complesso, ed è impossibile prevedere le conseguenze a lungo termine di una fertilizzazione dell’oceano su grande scala”.

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