La vita in bilico

Niles Eldredge
La vita in bilico. Il Pianeta Terra sull’orlo dell’estinzione
Einaudi, 2000
pp. 300, £28.000

Pensate che la civiltà occidentale sia eterna? Non è questo il libro che fa per voi. Pensate che il mondo sia inevitabilmente destinato alla catastrofe, e con lui tutti noi uomini urbanizzati? Non rivolgetevi a questo volume per avere conforto alle vostre idee. Infatti, “La vita in bilico” è un mirabile esempio di come sia possibile pensare in modo credibile a uno sviluppo sostenibile, senza indulgere né a tentazioni apocalittiche, né all’ottimismo irresponsabile. Nato da una mostra all’American Museum of Natural History di New York, ma ampliato secondo le personali inclinazioni di Eldredge, il volume si muove di continuo tra due poli, natura e uomo, con lo scopo di dimostrare come non sia possibile pensare questo senza quella, mentre il contrario è ancora per poco, direttamente visibile. Così, dal delta dell’Okavango alle foreste pluviali del Costarica, dalle profondità oceaniche ad alcune vette montane, vi sono ancora spazi in cui la natura non reca segni dell’uomo agricolo: in essi ritroviamo le mappe di quelle relazioni che rendono stabile e durevole un ecosistema, osservando le quali l’uomo occidentale può capire che le sue azioni non si svolgono in un mondo assoluto, sciolto da qualsiasi legame con la natura.

Anzi, l’uomo dipende in modo decisivo dall’ambiente naturale che lo circonda. Basti pensare alle risorse energetiche, all’ossigeno per respirare, alle migliaia di specie animali e vegetali utili alle sue attività quotidiane. Problemi che l’autore riesce a rendere piacevoli e facili, esemplificando ogni elemento con scene naturali di rara bellezza, solleticando ad ogni passo la curiosità e il senso di meraviglia del lettore, fornendogli gli strumenti per apprezzare pienamente il valore della conservazione della natura. Eldredge indica anche, ma in maniera poco sistematica e piuttosto frammentaria, le ricette per il superamento della crisi della biodiversità, centrate soprattutto sull’educazione ed il coinvolgimento di chi abita i luoghi più soggetti al disastro ambientale, cioè la fascia tropicale. Riuscendo a convincere gli indigeni che la salvaguardia dell’ambiente può essere una fonte di guadagno, si potrebbe conciliare la necessità di protezione ambientale con le ambizioni dei paesi in via di sviluppo. Allo stesso modo, lo sviluppo dell’ingegneria genetica, per mezzo dell’aumento di rendimento agricolo e dell’interesse delle multinazionali farmaceutiche e agroalimentari per le risorse di biodiversità, è considerato una delle possibilità per la conservazione della natura, tramite la cessione dei diritti di sfruttamento delle risorse genetiche per finanziarne la difesa. Eldredge tace però sul fatto che questi processi si basano sul riconoscimento della proprietà privata sulla materia vivente, e quindi sulle loro importanti ricadute sociali in termini di diffusione del modello occidentale di sviluppo e quindi di distruzione di culture locali, rischiando che l’ondata di estinzioni si sposti dall’ambiente naturale all’ambiente culturale. Sarebbe forse consigliabile cercare di conciliare queste due esigenze, visto che è proprio il modello occidentale che ha messo in moto la “sesta estinzione” (l’ultima dopo la quinta che ha eliminato i dinosauri).

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