No al biotech? E’ un pregiudizio linguistico

“Ingegneria genetica”. “Biotecnologia”. “Transgenico”. Sono parole fuorvianti, mettono troppo in risalto l’aspetto scientifico dell’argomento, rendendone più difficile la comprensione al pubblico. Mancano di aggancio emotivo. E soprattutto, intimoriscono. Sono queste alcune delle accuse che Steven B. Katz, docente di Tecniche della comunicazione alla North Carolina State University, ha rivolto al mondo scientifico e dei mass media.

Secondo lo studioso, autore di uno scritto su “Linguaggio e persuasione”, presentato nel corso dell’incontro annuale dell’American Association for the Advancement of Science (Aaas), le biotecnologie non piacciono perché vengono raccontate male. “Non è questione di singole parole”, spiega Katz, “tutto il sistema comunicativo è impostato in maniera errata e contribuisce a diffondere un messaggio significativamente diverso da quello che vorrebbe intendere chi scrive o chi parla dell’argomento”.

In che modo? “La scelta della terminologia e della costruzione linguistica”, prosegue Katz, “tende a rafforzare la dinamica di una comunicazione a senso unico, dove lo specialista racconta e il non addetto ai lavori ascolta passivamente”. Ma non è detto che si capiscano. “Tutt’altro”, continua lo studioso, “non c’è feedback, per cui colui che parla non tiene in alcuna considerazione il fattore comprensione”.

E i dati sembrano dargli ragione. Da un’indagine condotta dall’istituto italiano di ricerca Poster tra maggio e giugno del 2000, si è evidenziato che all’ampia visibilità data all’argomento dai mass media non corrisponde tuttavia un’effettiva conoscenza. Un dato tra tanti: il 32 per cento degli italiani intervistati è convinto che solo i pomodori transgenici abbiano i geni. Tutti hanno sentito parlare di biotecnologie, ma solo il 9 per cento del campione confessa di farne argomento di conversazione.

E’ un fatto anche che quando si parla di biotecnologie le prime associazioni sono quelle legate alle implicazioni sgradite del prodotto piuttosto che a quelle utili. Il 27 per cento degli italiani pensa subito ai bambini nati in provetta. Il 19 per cento alle pecore clonate e ai pomodori che non vanno mai a male. Meno del 16 per cento si ricorda, per esempio, che anche la medicina dei trapianti è un prodotto dell’ingegneria genetica.

A incidere negativamente è anche la valutazione soggettiva del rapporto utilità-rischio. L’84 per cento delle persone intervistate ritiene utile e non rischiosa la ricerca effettuata per prevenire le malattie genetiche, ma solo il 49 per cento condivide il trapianto di organi o tessuti animali e il 62 per cento ritiene rischioso modificare i geni dei prodotti alimentari. Quanto più la percezione di rischio sale, tanto più diminuisce quella di utilità.

Che il problema sia in parte dovuto alla comunicazione ce lo dimostrano i dati relativi alle fonti di informazione ritenute più credibili. Al primo posto ci sono le associazioni dei consumatori – le ritiene credibili il 36 per cento del campione – seguite dalle organizzazioni ambientaliste, accreditate dal 21 per cento degli intervistati. Bassissima invece è la credibilità assegnata alle fonti ufficiali. Perché?

Secondo Katz la ragione di questa mancata credibilità risiede nel fatto che le fonti accademiche e ufficiali non tengono sufficientemente conto delle esigenze e del background del consumatore. Laddove le associazioni ambientaliste e quelle a tutela del consumatore sono più sensibili alle necessità del pubblico. “Sarebbe utile”, conclude Katz, “che gli addetti ai lavori si preoccupassero di più dell’impatto linguistico delle loro dichiarazioni. Non basta essere chiari e logici per farsi capire, bisogna anche costruire un contatto emotivo che coinvolga in prima persona chi ascolta”.

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