Quel niente che cura

Una cura basata sul nulla, a base di pillole di zucchero, soluzioni di sale e acqua distillata. Ma per qualche ragione finora rimasta oscura, a volte è in grado di eliminare i sintomi di una malattia. E’ il mistero del placebo, probabilmente racchiuso nel potere della suggestione, dato che il sistema funziona esclusivamente se il paziente è convinto che il trattamento somministratogli non sia semplice acqua fresca, ma un vero e proprio farmaco.

I medici solitamente sono abbastanza scettici in materia di guarigioni inspiegabili e forse per questa ragione il placebo è rimasto finora confinato nell’ambito delle esperienze puramente soggettive e suggestive. Ma ora il National Institute of Health (Nih) americano ha deciso di affrontare la questione su basi scientifiche e di avviare un progetto di ricerca internazionale sull’analgesia da placebo. Scopo: capire come è possibile che una pillola farmacologicamente inerte riesca a curare il dolore. Si tratta di una ricerca che, al momento, è solo agli inizi, ma che entro un paio d’anni dovrebbe fornire risposte definitive sugli effetti fisiologici della misteriosa pillola di zucchero.

Il nome di placebo si estende in verità anche a qualsiasi terapia che non abbia alcun effetto diretto, scientificamente dimostrato, sul corpo o sulla malattia in questione. Quindi non solo la mitica pillola di zucchero, ma anche quel florilegio di terapie non convenzionali, di cui spesso tanto si discute, genericamente indicate come “medicina alternativa”.

“La finalità del progetto”, spiega Fabrizio Benedetti del Dipartimento di neuroscienze dell’Università di Torino e condirettore della sezione di neurobiologia del progetto internazionale, “è di analizzare e individuare le varie aree cerebrali implicate nell’analgesia da placebo”.

Benedetti è stato anche un pioniere nelle ricerche che hanno portato ai primi riscontri organici e oggettivi dell’effetto placebo. Suo è lo studio pubblicato l’anno scorso sul Journal of Neuroscience in cui si dimostrava che l’analgesia da placebo è strettamente legata alle endorfine, gli oppioidi che il nostro organismo produce spontaneamente per lenire il dolore.

“Abbiamo esaminato la risposta al dolore in due gruppi di volontari”, spiega Benedetti. “Il primo gruppo era trattato con morfina, mentre il secondo, a sua insaputa, veniva trattato con una semplice soluzione salina”. Il secondo gruppo rispondeva positivamente proprio come se prendesse la morfina. Ma quando i ricercatori hanno introdotto nella soluzione il naloxone – una sostanza capace di bloccare i recettori per gli oppioidi endogeni (endorfine) – l’effetto placebo è improvvisamente scomparso. “Abbiamo stabilito così una correlazione organica diretta tra endorfine e risposta al placebo”, dichiara Benedetti.

“Ma l’effetto placebo è qualcosa di molto più complesso”, aggiunge il ricercatore torinese. “Non basta sapere quali molecole entrano in gioco. Bisogna considerare anche una panoramica più completa delle aree cerebrali coinvolte. Il sistema libico innanzitutto, perché la componente emotiva e suggestiva del fenomeno è estremamente forte”. E appunto questo è lo scopo della ricerca promossa dal Nih che si articola in sei sezioni: neurobiologica, comportamentale, psicologica, procedurale, terapeutica e un’indagine sulla medicina alternativa.

Fanno parte dell’équipe anche psicologi e antropologi che daranno il loro contributo in merito a quei luoghi comuni, culturalmente condivisi, come per esempio lo studio sulla suggestione indotta dal colore delle pillole. Una recente ricerca condotta dall’antropologo americano Dan Moerman, dimostrerebbe infatti che le pillole blu sono universalmente associate a un effetto calmante. Eccezion fatta per il maschio italiano che, associando l’azzurro al colore della maglia della nazionale di calcio, cade in preda a uno stato di eccitamento.

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