Uomini per caso

I reperti fossili ritrovati nel XX secolo hanno confermato le ipotesi di Darwin: l’Africa è stata la culla dell’umanità. Lì infatti viveva, tra i 2 e i 6 milioni di anni fa la più antica sottofamiglia degli ominini, individui che appartenevano a una forma intermedia tra le scimmie antropomorfe e l’uomo. Le recenti scoperte paleoantropologiche però non hanno ancora risposto a due domande: dove ha avuto origine la nostra specie? Quando si è separata la linea evolutiva dell’uomo da quella delle scimmie antropomorfe africane? Caduto il primato dell’Ardipithecus africanus, l’ominino vissuto 4,4 milioni di anni fa e rinvenuto ad Aramis in Etiopia, nemmeno l’Orrorin Tugenensis, detto anche Millennium Man, scoperto nel febbraio 2001 sulle colline di Tugen, in Kenia, sembra essere il nostro primo antenato. Questa scoperta, di un fossile di circa 6 milioni di anni fa, è stata offuscata nel luglio scorso dai fossili di ardipiteco vecchi circa 5,2 – 5,8 milioni di anni rinvenuti in Etiopia. Cronologicamente meno importanti ma morfologicamente più simili al genere Homo. Insomma la partita sulle nostre origini è ancora aperta. Uno strumento prezioso in questa indagine a ritroso nel tempo è lo studio del Dna ricavato dai fossili: le informazioni ottenute in questo caso non sono influenzate da alcun modello evolutivo e consentono di analizzare la variabilità degli individui in maniera completa e obiettiva. Su questo argomento Galileo ha intervistato Olga Rickards, direttore del Centro dipartimentale di antropologia molecolare per lo studio del Dna antico dell’Università Tor Vergata di Roma, che, insieme a Gianfranco Biondi, ha scritto “Uomini per caso, miti, fossili e molecole nella nostra storia evolutiva” (Editori Riuniti, £ 34.000), dal 20 ottobre in libreria.

Professoressa Rickards come nasce l’idea del libro “Uomini per caso”?

“Nasce dal desiderio di divulgare l’antropologia al pubblico e offrire una lettura del problema dell’evoluzione utilizzando le teorie paleoantropologiche e l’antropologia molecolare. Abbiamo cercato di dar conto delle ultime scoperte effettuate nel settore, aggiornate al luglio 2001, tra le pubblicazioni in italiano, infatti, era assente un aggiornamento divulgativo. Il titolo sottolinea l’evoluzione casuale della nostra specie in contrasto con la visione deterministica. Come hanno dimostrato i dati raccolti, le caratteristiche umane si sono presentate anche in altre forme. Basti un esempio: la postura eretta e la deambulazione bipede erano già state sperimentate dall’Oreopiteco una specie vissuta nel Miocene superiore (5,2 – 10,2 milioni di anni fa), quando le linee evolutive che hanno portato al gorilla, agli scimpanzé e agli umani non si erano ancora separate”.

Perché la Rift Valley nel libro viene definita “l’ultimo ricettacolo di pregiudizi sulla storia evolutiva dell’uomo”?

“Perché per anni i paleoantropologi hanno creduto che questa zona avesse rappresentato una sorta di barriera che divideva geograficamente il luogo di formazione degli ominini da quello delle grandi scimmie antropomorfe africane. Allontanando ogni possibile contaminazione. A metà degli anni Novanta però questo mito è crollato grazie alla scoperta in Ciad di una mandibola di australopiteco di 3 – 3,5 milioni di anni, a circa 2.500 chilometri dalla Rift Valley. Si trattava di una nuova specie, ribattezzata bahrelghazali, da nome della località Bahr el Ghazal in cui sono stati rinvenuti i fossili, che fa fatto definitivamente tramontare l’idea che la culla della civiltà umana fosse esclusivamente l’Africa orientale e meridionale”.

Qual è il ruolo della biologia molecolare nelle ricerche paleoantropologiche?

“E’ fondamentale a patto che questa disciplina non si veda in contrasto con la paleontologia, come accadeva negli anni Settanta. Si tratta di due ambiti specifici diversi, con due visioni epistemologiche, che arricchiscono di informazioni un settore d’indagine comune. E che hanno un obiettivo: scegliere la spiegazione più probabile tra quelle ipotizzate per raccontare la storia delle nostre origini. L’analisi condotta dalla biologia molecolare inoltre ha aiutato la spiegazione paleoantropologica, chiarendo i rapporti tra la specie uomo e le grosse scimmie antropomorfe, ovvero le due africane, scimpanzé e gorilla, e quella asiatica, l’orango. Grazie agli studi molecolari oggi sappiamo che appena il 2,5 per cento del nostro Dna differisce da quello dei gorilla e solo poco più dell’1,5 per cento da quello dello scimpanzé. E quindi che se l’orango appartiene a una forma diversa, gorilla e scimpanzé sono specie simili alla nostra. Questa scoperta ha sfatato ancora una volta il mito dell’unicità dell’uomo. Inoltre le analisi del Dna antico hanno consentito di chiarire la posizione dell’uomo di Neanderthal, dimostrando che non era un antenato diretto della specie homo sapiens ma un ramo estinto 40 mila anni fa”.

Qual è “il nuovo paradigma per l’evoluzione umana” di cui parla l’ultimo capitolo del libro?

“Gli studi evolutivi devono ancora rispondere ad alcune domande. Diversamente da altre discipline, che fanno leva sulla verifica sperimentale, la paleoantropologia procede per tentativi. La verifica si ottiene incrociando i risultati ottenuti da diverse discipline. Che possono rivoluzionare paradigmi ormai consolidati. Non esistono nel nostro ambito di studi situazioni assodate. Contro ogni teoria sulla diversità delle razze, per esempio, una recente conquista della paleoantropologia e della biologia molecolare è stata la scoperta dell’origine unica e recente della specie umana”.

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