Giulio Tononi: quanti bit per la coscienza?

La perdita, temporanea, di coscienza la proviamo ogni sera quando ci addormentiamo. Ma che differenza c’è fra la veglia, il sogno e il sonno profondo? E perché la coscienza sparisce se si intacca la corteccia cerebrale e non se si amputa una gamba? Come può questo pugno di materia percorso da reazioni chimico-fisiche generare un fenomeno come la coscienza? Sono alcune delle domande su cui si è soffermato Giulio Tononi, professore di psichiatria presso l’università del Wisconsin, nell’arco delle sue “lezioni italiane” sul cervello e la coscienza, promosse dalla Fondazione Sigma-Tau e dall’Università Cattolica a Roma il 20, 21 e 22 gennaio scorsi. La risposta, secondo lo scienziato italiano, potrebbe darla una teoria neurobiologica della coscienza, frutto dell’interpretazione dei risultati scientifici accumulati finora: “Per arrivare a una vera e propria teoria scientifica della coscienza”, osserva Tononi, “è necessario formulare le nostre intuizioni in termini matematici: solo così potremo definire precisamente i concetti di cui abbiamo una nozione intuitiva”.

L’esperimento: Galieo e il fotodiodo

Un primo passo in questa direzione lo fa lo stesso psichiatra con un “gedanken experiment”, un esperimento immaginario. E in omaggio a colui che inventò questo genere di razionali balzi di fantasia, lo chiama esperimento di “Galieo e il fotodiodo”, (da cui il titolo delle lezioni e anche del suo libro di prossima pubblicazione da Laterza). Eccolo: chiudiamo in una stanza Galileo e un fotodiodo, ovvero un apparecchietto in grado di segnalare se si trova in un ambiente buio o illuminato, accendendo o spegnendo un “led” luminoso. Anche Galileo lo sa fare, dicendo “buio” o “luce”. Se accendiamo e spegniamo alternativamente la luce, i due reagiranno alla stessa maniera. Ma allora non c’è nessuna differenza fra Galileo, che è un essere cosciente, e il fotodiodo, che non lo è?

La differenza c’è. Se accendiamo una luce rossa, Galileo riconoscerà un terzo stato, oltre alla luce e al buio, il fotodiodo no. E un altro stato ancora, se proiettiamo su una parte un’immagine di Pisa, o un determinato dipinto piuttosto che un altro. Ecco secondo Tononi individuata la prima caratteristica della coscienza: la capacità di discriminare fra un numero enorme di stati diversi, cosicché ciascuno di questi contiene molta informazione, perché è stato scelto escludendone tantissimi altri.

L’integrazione della coscienza

Ma – si potrebbe obiettare – anche le macchine discriminano fra tante immagini diverse: se metto insieme tanti “fotodiodi” potrò fare in modo che riproducano tutte le immagini che voglio. È più o meno quello che fanno i pixel della televisione: tanti punti luminosi per formare una quadro unico. Anche questa obiezione cade però, se si considera una seconda caratteristica della coscienza: la sua “integrazione”. “Ogni stato di coscienza viene esperito come un tutto unitario, non come la somma di tanti elementi semplici”, spiega Tononi. Tanto è vero che nei pazienti con epilessia grave, ai quali viene praticata l’operazione della separazione del cervello in due metà, violandone l’integrazione, si vengono a creare “due coscienze” all’interno dello stesso individuo. Al punto che i pazienti sono in grado di comprendere perfettamente – molto meglio dei sani, “con una coscienza sola”- due immagini inviate separatamente a ciascuno dei loro occhi.

Le due caratteristiche distintive dell’esperienza cosciente – la “differenziazione”, o “informatività”, e l’ “integrazione” – si prestano, secondo Tononi, a una trattazione matematica, con strumenti che vengono presi in prestito dalla teoria dell’informazione. Che consente di calcolare – almeno in linea di principio – la “complessità” di un sistema caratterizzato da una gran quantità d’informazione integrata attraverso unità di misura come i bit. E suggerisce che la coscienza sia quel fenomeno che emerge al di sopra di una certa soglia di complessità.

Inoltre la teoria presuppone che vi sia, all’interno della corteccia, un particolare sottoinsieme caratterizzato dal possedere al massimo questa caratteristica, il “complesso”, che sarebbe la sede specifica della coscienza. “Come sempre, quanto più una teoria scientifica è formulata rigorosamente, tanto più pone problemi e apre scenari nuovi”, afferma Tononi. Le domande a cui si deve dare ancora una risposta sono molte: Esiste un “complesso sufficientemente complesso”? E dove? E quali animali hanno un cervello in grado di generare coscienza? Le malattie cerebrali sono frutto di una carenza d’integrazione? Tononi ha lasciato il pubblico con queste e altre domande, ma anche con l’impressione di aver scandagliato assai in profondità quella che Emily Dickinson chiamava “la differenza interiore/dove nascono i significati”.

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