Scienza e precariato

M. Carolina Brandi
Portati dal vento. Il nuovo mercato del lavoro scientifico: ricercatori più flessibili o più precari?
Odradek 2006, pp.200, euro 15,00

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Può sorprendere che uno studio denso di tabelle e analisi statistiche sia pubblicato da un’editrice militante (che non vuol dire approssimativa) come Odradek. Tuttavia, malgrado lo stile accademico, l’immagine del mondo della ricerca italiana che emerge dall’analisi di M. Carolina Brandi non perde in impatto, anzi: si rafforza proprio per l’ampiezza della documentazione e la complessità del tema, trattato senza semplicismi. La questione è di strettissima attualità: le conseguenze della diffusione endemica di forme di lavoro atipico nelle università e negli enti di ricerca. Brandi e la sua équipe dell’Istituto di Ricerca sulla Popolazione e le Politiche Sociali del CNR chiariscono un dubbio: la precarizzazione del lavoro di ricerca si è tradotta in un formidabile boomerang per la stessa comunità scientifica. In questi anni, e non solo negli atenei, la flessibilità del rapporto di lavoro è stata giustificata dalla necessità di svecchiare, fluidificare e rendere più efficiente l’organizzazione produttiva. Ebbene: per quanto riguarda la produzione e la trasmissione di conoscenze, il “core business” di ricerca e università, la precarietà non ha portato nulla di tutto ciò. Al contrario, ha finito per aggravarne i difetti storici. La ricerca di Brandi, dunque, smonta diversi luoghi comuni.

Per esempio, l’analisi comparata rivela che la richiesta di maggiori tutele per i ricercatori non è il piagnisteo italiota di una generazione che rimpiange il posto fisso. In questi ultimi anni, il malcontento contro la ricerca co.co.co. è emerso persino nei paesi scandinavi che investono in ricerca molto più che le briciole nostrane. Anche a New York, nel 2006, si arrivò agli scontri di piazza per i diritti dei giovani ricercatori. Trattasi, com’è evidente, di sistemi diversissimi per storia e tenore di vita. Perciò, la radice del comune disagio non risiede nel livello di finanziamenti e stipendi, così diversi tra loro: piuttosto, sta nell’organizzazione “a progetto” che, dagli Usa alla Svezia, priva la ricerca pubblica delle prospettive di lungo periodo su cui può dimostrare la sua utilità e la sua necessità.

Né la gerarchia accademica, spesso un vero feudalesimo, è scalfita dalla riorganizzazione dell’attività intorno a figure ibride (assegnisti, borsisti, parasubordinati, docenti a contratto). Il 78 per cento dei ricercatori intervistati da Brandi afferma che il sostegno del capo è un fattore determinante per la prosecuzione della carriera, con buona pace dell’indipendenza del lavoro di ricerca. E in un’inchiesta svolta soprattutto da donne, non può mancare una prospettiva di genere. È donna il 53 per cento dei ricercatori a termine intervistati con contratti di durata inferiore a un anno, mentre gli uomini si accaparrano il 59 per cento dei contratti che durano 3 anni e più. Alla brevità dei contratti, inoltre, corrisponde una maggiore subordinazione: l’appoggio di un “padrino” accademico conta più del merito per il 65 per cento delle donne, percentuale che scende al 50 per cento (comunque elevata) tra gli uomini. La distanza tra il “marketing della precarietà” e la realtà è quanto mai vistosa: basti ricordare che la flessibilità fu introdotta per favorire le esigenze del lavoro femminile (così si disse all’epoca), mentre oggi una donna è una ricercatrice di serie B. È un fenomeno trasversale all’intera società, che non risparmia nemmeno i settori di attività più qualificati. I dati raccolti e analizzati dal gruppo di ricerca di M. Carolina Brandi, dunque, mostrano come la precarietà dei ricercatori sia il sintomo di una crisi sistemica più profonda, che lascia poche incertezze sull’interrogativo del titolo (“Più flessibili o più precari?”). Ora, almeno, si possono chiamare le cose con il loro nome.

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