Discriminazioni biotech

Che anche la tolleranza alle sostanze tossiche dipendesse (in parte) dai geni è una cosa che i biologi sanno da tempo. Ma quali possono essere i risvolti sociali e politici delle ricerche sulle interazioni geni-ambiente che sondano le predisposizioni ad ammalarsi? Fino a pochi anni fa la genetica e le biotecnologie non giocavano un ruolo cruciale nella determinazione delle politiche governative per la tutela della salute umana e ambientale. Ma ora le cose stanno cambiando. E a un ritmo vertiginoso. Come testimonia l’ultima ricerca di Giovanna Di Chiro, docente presso il dipartimento Terra e Ambiente del Mount Holyoke College (Massachusetts, Usa), presentata nell’ambito di “Wonbit: Women on Biotechnologies, Scientific and Feminist approaches”, convegno internazionale promosso dall’associazione Donne e Scienza insieme alla Fondazione Giacomo Brodolini, tenutosi dal 21 al 23 giugno scorsi presso il Cnr a Roma.

L’indagine della ricercatrice – tuttora in corso – si è focalizzata sull’Environmental Genome Project (Epg) del National Institute of Environmental Health Sciences (Niehs) del North Carolina, uno dei centri dei National Institutes of Health (Nih) statunitensi. L’Epg, diretto dal biologo molecolare Kenneth Olden, è stato avviato nel 1997 con l’obiettivo di studiare le malattie a livello molecolare e genetico, e comprendere perché alcuni esseri umani sembrano essere più predisposti di altri alle patologie legate all’inquinamento ambientale. Attualmente i ricercatori dell’Epg stanno cercando di catalogare tutte le varianti genetiche (singoli polimorfismi nucleotidici – single nucleotide polimorphim, Snips) che possono rendere alcuni soggetti più o meno resistenti agli elementi tossici.

Sono stati raccolti i campioni di sangue dei cittadini statunitensi delle cinque etnie maggiormente rappresentate (asiatici, afroamericani, ispanici, caucasici e nativi americani), con lo scopo di studiare la frequenza dei cosiddetti “geni ambientali”, quelli che hanno cioè un ruolo critico nella risposta dell’organismo a sostanze pericolose. L’intenzione era ed è quella di identificare le “sottopopolazioni o etnie suscettibili”, per fornire informazioni alla Food and Drug Administration e alla Environmental Protection Agency, per poi sviluppare una politica di giustizia ambientale mirata a proteggerle.

I ricercatori hanno stimato che ci sono circa 11 milioni di variazioni e che solo una piccola percentuale di queste sarebbero associate a un alto rischio di malattie ambientali. La fase iniziale dello studio è stata finanziata con circa 60 milioni di dollari e ha portato all’individuazione di 450 linee cellulari, il cosiddetto “Dna Polimorphism Discovery Resource”. Esaminando questo imponente database, gli scienziati hanno identificato circa 550 “geni ambientali” collegati al rischio di sviluppare malattie in presenza di sostanze tossiche. Alcuni di questi sono, per esempio, i geni responsabili della riparazione del Dna, del controllo dei cicli cellulari, del controllo del citocromo e degli enzimi che metabolizzano le tossine. Dei 550, al momento, ne hanno sequenziati oltre 370, scoprendo 50 mila nuovi polimorfismi. Il prossimo passo sarà quello di capire quali variazioni sono associate alle malattie ambientali che si manifestano maggiormente in particolari sottopolazioni.

Fin qui i risultati scientifici, sebbene parziali. Ma qual è l’atteggiamento con cui i ricercatori da una parte e gli attivisti ambientali dall’altra guardano a questo tipo di progetto? Per farsene un’idea Di Chiro ha intervistato i ricercatori impegnati nell’Epg, scienziati esterni al progetto e alcune donne attiviste di movimenti ambientalisti. Ottenendo risultati contrastanti, soprattutto sulla definizione di giustizia ambientale che dovrebbe emergere come risultato di un progetto del genere.

Da una parte, infatti, per la scienza individuare i polimorfismi alla base della suscettibilità per alcune malattie si traduce nella possibilità di avere diagnosi precoci e quindi di consigliare a queste persone “suscettibili” di vivere in luoghi diversi, di avere uno stile di vita che riduce al minimo il rischio e di eseguire eventualmente uno screening genetico per assicurarsi, in caso di gravidanza, che la stessa mutazione non affligga anche il nascituro. “Come a dire”, sottolinea Di Chiro, “che la presenza di sostanze tossiche nell’ambiente in cui viviamo è dato per scontato, non si tratta di un fattore su cui possiamo agire”.

Al contrario le attiviste sottolineano l’importanza di eliminare le cause dell’inquinamento ambientale
e i fattori macroscopici di rischio, come le condizioni socio-economiche (soprattutto legate alla discriminazione razziale). Secondo la ricercatrice, l’alto tasso di mortalità e l’alta incidenza di “malattie ambientali” (come il cancro, le patologie respiratorie, i disordini neurovegetativi) di quelle popolazioni per cui la politica vorrebbe una giustizia ambientale “ad hoc”, dipendono dal fatto che esse sono esposte cinque volte più delle altre a sostanze tossiche, dalle loro condizioni di vita e di lavoro e non tanto da mutazioni genetiche.

“Una predisposizione genetica non può essere una fonte di discriminazione e la responsabilità di preservarsi dalle malattie non deve ricadere sull’individuo a rischio”, afferma ancora Di Chiro. “Le donne non dovrebbero subire la pressione sociale o essere spinte a sottoporsi a diagnosi preventive”. Le biotecnologie, quindi, possono porre un effettivo problema di giustizia sociale. Di fronte al quale è auspicabile una più stretta collaborazione tra politica e movimenti ambientalisti, “per evitare che i risultati scientifici siano usati in maniera non genuina per i cittadini”, conclude la ricercatrice.

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