Un’alga verde come “cugina”

Un organismo unicellulare per capire cosa piante e animali hanno perso durante l’evoluzione. Un gruppo di biologi statunitensi del Carnegie Institution ha identificato la sequenza di aminoacidi dell’alga unicellulare Chlamydomonas reinhardtii e ha messo a confronto i suoi 15mila geni con il genoma di piante e animali, incluso l’essere umano. Secondo i ricercatori, questa alga, considerata dai biologi un organismo modello, ha mantenuto molti geni che sono andati perduti sia nel regno vegetale che in quello animale durante l’evoluzione. La ricerca è stata pubblicata sull’ultimo numero di Science.

Chlamydomonas reinhardtii è un organismo di appena dieci micrometri che vive nel terreno e nelle acque. Circa 1,6 miliardi di anni fa si è “staccata” dagli animali e mezzo miliardo di anni dopo si è separata dalle piante, pur continuando a fare la fotosintesi. Per muoversi, l’alga verde utilizza due flagelli simili a ciglia che equivalgono a organelli presenti nelle cellule animali. Nello studio sono stati identificate molte nuove proteine che sarebbero associate con la funzionalità dei flagelli. Comparando circa settemila proteine con sequenza aminoacidica simile, i ricercatori hanno trovato che nella Chlamydomonas reinhardtii il 35 per cento di questi geni sono in comune con piante ed esseri umani, mentre un ulteriore dieci per cento è comune solo agli uomini. Nella Chlamydomonas reinhardtii, inoltre, ci sono numerose proteine che rendono possibile la vita nel terreno, inclusi dei trasportatori, ovvero proteine che aiutano il materiale a entrare nelle cellule. Mentre alcuni di questi “apparati” sono vicini alle piante, altri risultano più simili a quelli presenti nelle cellule animali. Lo studio dei geni che li codificano potrebbe aiutare nella comprensione dell’evoluzione di questi sistemi cellulari.

“Questo studio ha spianato la strada all’esplorazione dei numerosi geni coinvolti nella fotosintesi, nonché alla definizione della struttura e degli aspetti dinamici delle funzioni dei flagelli che hanno consentito a molti organismi in evoluzione di adattarsi alla vita nel terreno”, ha dichiarato Arthur Grossman, uno dei ricercatori del Carnegie Institution coinvolti nello studio. (s.m.)

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