Il flop dei vaccini

Le speranze nutrite in venti anni di ricerca per un vaccino preventivo contro l’Aids sono andate perdute. E, con esse, decine di milioni di dollari stanziati ogni anno dal governo Usa. Le sperimentazioni di due dei più promettenti vaccini anti-Hiv (Step e Phambili) della farmaceutica Merck sono state bloccate: non solo i due farmaci si sono dimostrati inefficaci, ma aumentano il rischio di contagio. Stop, in alcuni casi definitivo, anche per altri sette vaccini che si basano sulla stessa strategia. I ricercatori si stanno ora interrogando sulle cause dell’esito e la scorsa settimana è stato indetto un vertice dei National Institute of Health per discutere su quanto accaduto: al momento, l’ipotesi è che il vaccino abbia in qualche modo reso il sistema immunitario più vulnerabile. Un’eventualità non prevedibile, secondo gli studiosi statunitensi, né prospettata dai precedenti test effettuati su alcune scimmie.

Il trial di fase 2 del vaccino Phambili, costato circa 32 milioni di dollari, era cominciato in Stati Uniti, Canada, Sud America, Australia e Caraibi nel 2005 e, circa un anno fa, anche in Sud Africa. Quest’ultimo sarebbe dovuto essere il più grande studio per un vaccino anti-Hiv condotto nel continente africano, con l’arruolamento di tremila persone Hiv-negative (dopo che le sperimentazioni su 1.800 volontari non africani avevano dato risultati incoraggianti). Invece si è dovuto fermare a 801, quando il rischio di contagio per i vaccinati è risultato più che doppio rispetto al campione di controllo. Anche la sperimentazione di Step, partita nel 2004, prevedeva l’arruolamento di tremila persone, soprattutto omosessuali. Ma già a settembre dello scorso anno, dei 672 volontari vaccinati 19 avevano contratto la malattia (il più alto rischio è stato registrato tra i non i circoncisi), contro gli 11 dei 691 cui era stato somministrato un placebo.

In entrambi i casi si trattava di vaccini preventivi. L’idea è di sfruttare un adenovirus (come quello dell’influenza) reso inoffensivo per veicolare geni dell’Hiv che codificano per tre proteine, e indurre il sistema immunitario a produrre gli anticorpi specifici. “La prevenzione dall’Hiv è estremamente difficile da ottenere”, ha commentato Arnaldo Caruso, ordinario di microbiologia dell’Università di Brescia che sta lavorando a una via alternativa a quella preventiva, ovvero a un vaccino da somministrare a contagio avvenuto per limitare i danni dell’infezione: “Sono quarant’anni che si cerca di ottenere un vaccino preventivo per un virus dell’herpes e non ci riusciamo. L’Hiv è peggio: infetta e si integra con le cellule del sistema immunitario stesso, comincia a circolare in tutto l’organismo e a mutare. Le sue proteine di superficie, bersaglio della maggior parte dei vaccini in studio, sono specchi per le allodole, mentre i siti attivi rimangono nascosti”.

Secondo Caruso, inoltre, l’aumento del rischio di contagio riscontrato nei trial statunitensi poteva essere previsto: “Il virus dell’Aids replica in maniera blanda e tende a convivere con l’organismo ospite. Il problema è che le sue proteine sono tossiche per le nostre cellule immunitarie. È quindi possibile che siano state proprio le proteine codificate dai geni veicolati dal vaccino a indebolire il sistema immunitario”.

E sull’ipotesi che le proteine del virus siano la causa principale della malattia si basano i due vaccini  sviluppati in Italia. Proprio a Brescia, il 27 marzo scorso si è tenuto un incontro scientifico per fare il punto sulle attività di ricerca clinica e sulla vaccino-terapia contro l’Aids nel nostro paese. Il vaccino dell’équipe di Caruso è al momento al vaglio dell’Istituto Superiore di Sanità per l’autorizzazione alla sperimentazione di fase 1 (su innocuità e immunogenicità) che dovrebbe partire nei prossimi mesi a Brescia, Milano, Torino e Perugia. L’altro vaccino, che sta già entrando nella fase 2, è quello del gruppo di Barbara Ensoli, ricercatrice dell’Iss, più volte criticato di inefficacia da esponenti della comunità scientifica. Entrambi utilizzano, come bersaglio, due proteine fondamentali per la replicazione del virus (rispettivamente la P17 e la Tat). “Abbiamo individuato una proteina molto stabile, perché anche con una minima mutazione il virus non potrebbe riprodursi”, spiega Caruso: “Ci siamo resi conto che la P17 era molto simile a una citochina, in grado quindi di sbilanciare il sistema immunitario. La nostra speranza è di bloccare l’attività biologica della proteina e contenere l’infezione, rendendo il paziente un portatore sano”.

Gli Usa intanto si arrendono al fatto di non avere in mano, a questo punto, alcuna strategia preventiva.

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