L’editoria senza qualità

Per un ricercatore, si sa, pubblicare su una rivista scientifica di alto livello, Nature o Science in testa, è uno degli obiettivi principali. Ma in Italia quali sono le riviste più serie e accreditate? Qual è il loro livello di qualità, rispetto a quelle pubblicate in altri paesi? Quante di queste richiedono, per esempio, che siano dichiarati i conflitti di interesse o l’adesione a uno standard internazionale?

Un tentativo di rispondere a queste domande lo ha fatto Valerie Matarese, esperta di information research ed editoria medico-scientifica, che negli ultimi dieci anni ha collaborato con sei diverse riviste italiane del settore. A partire da questa sua esperienza, ha pubblicato le sue considerazioni su Plos One lo scorso primo luglio. La sua analisi è il risultato di un confronto tra 76 riviste italiane indicizzate nella più importante banca dati della letteratura medica, Medline, e altrettante inglesi.

Dottoressa Matarese, qual è il principale obiettivo della sua analisi?
La mia ricerca muove dal fatto che non esistono dati chiari sui fattori che determinano la qualità di una rivista medica, al di là di una accurata peer review e delle revisioni editoriali. La mia ipotesi, confermata da questo studio, è che la qualità sia strettamente associata con una forte leadership editoriale.

In cosa consiste questa leadership editoriale?
Consiste nel coraggio di scegliere: scegliere di pubblicare, per esempio, soltanto le ricerche di chi aderisce all’ultima versione della Dichiarazione di Helsinki (il documento sui principi etici della ricerca biomedica adottato dal World Medical Association nel 1964, rivisto nel 2004, ndr.) e ad altre iniziative che  promuovono la qualità come le linee guida del Committee of Medical Journal Editors. Ma anche scegliere di chiedere agli autori di attenersi alle normative per la ricerca sugli animali e sul consenso informato, e di agire con l’approvazione di un comitato etico. In questo senso, risulta di qualità una rivista che si accerti che tutti gli autori abbiano apportato effettivamente un contributo, e che siano dichiarati i finanziamenti e i conflitti di interesse. E che, ovviamente, comunichi tutte le sue norme agli autori e indichi come seguirle. Nel mio studio ho confrontato i valori di Impact Factor e altre caratteristiche di citazione come quelle di SCImago: i valori più alti li hanno effettivamente le riviste più esigenti e rigorose.

Perché ha scelto di paragonare l’editoria italiana con quella inglese?
I due paesi sono simili per numero di abitanti e Pil. Entrambi sono membri del G8, sono considerati scientificamente avanzati, e hanno leggi sulle pratiche etiche nella ricerca biomedica, come stabilito dalle direttive europee. Però la “cultura della qualità” per le pubblicazioni scientifiche è molto più radicata in Gran Bretagna che non in Italia. Oltre la Manica, inoltre, si spende il doppio in ricerca e sviluppo di quanto non si faccia nel nostro paese, dove la ricerca in generale è sottofinanziata e l’assenza quasi totale di meritocrazia porta al peculiare fenomeno della fuga dei cervelli. Queste differenze potrebbero incidere negativamente sulla produzione di riviste di qualità, e riflettersi nella mancanza di leadership editoriale.

Quindi perdiamo nel confronto?
Complessivamente sì. Naturalmente ci sono riviste italiane di buon livello, e riviste inglesi mediocri. Dei 13 parametri relativi alla leadership considerati nel mio studio, ce ne sono quattro a cui nessuna rivista italiana aderisce (la richiesta di registrare gli studi clinici prima dell’arruolamento dei pazienti, e l’adesione alle checklist Consort e Quorom e alle linee guida della Cope, ndr.). Si tratta di raccomandazioni recenti, il che suggerisce che gli editori italiani non sono informati sulle nuove iniziative per promuovere la qualità delle pubblicazioni biomediche.

Qualche rivista italiana che dà il buon esempio?
Lo scopo dello studio non era mettere in evidenza i buoni e i cattivi. La mia indagine guarda all’insieme, non al singolo. E soprattutto vuole lanciare un messaggio: ci sono molte opportunità per le riviste italiane che non vengono sfruttate. Nelle associazioni che assistono gli editori, dove ci si scambiano informazioni e si possono ricevere consigli, si riscontra una minore presenza degli editori italiani rispetto a quelli di tutti i paesi più avanzati. È un peccato, perché le riviste italiane potrebbero svolgere al meglio il ruolo di ponte con i paesi terzi.

Cosa vuole dire?
Le riviste dei paesi industrializzati non anglofoni possono facilitare la pubblicazione di articoli degli scienziati di paesi meno sviluppati. Alcune riviste italiane hanno già accettato questo ruolo di intermediari proposto dal Croatian Medical Journal, che a sua volta aiuta autori di paesi ancora più poveri. È un’occasione, per l’Italia, per essere “più internazionale”. Le riviste statunitensi e inglesi, anche se considerate internazionali, non sempre riservano l’attenzione adeguata alla salute dei paesi in via di sviluppo.

Lei ha scritto anche che la mancanza di leadership porta a un circolo vizioso…
Sì. Io per prima, per pubblicare questo studio, ho cercato una rivista di qualità. Chi non stabilisce delle raccomandazioni alla fine si ritroverà a pubblicare gli studi meno affidabili. Questo avviene perché alcuni editori hanno paura che, imponendo standard troppo alti, non riceveranno abbastanza articoli. Ma se le riviste stesse aiutano gli autori a pianificare lo studio nel modo migliore e li guidano, possiamo aumentare la qualità delle riviste, ma anche quella degli studi.

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