Nanomaquillage per antiche bellezze

Antigua Ciudad Maya de Calakmul, in Messico, è il più importante sito archeologico del periodo classico della civiltà Maya (250-800 d.C.). Qui sono stati ritrovati oltre seimila reperti archeologici tra edifici, sculture, altari, steli, affreschi. Ma Calakmul è anche il primo sito in cui i dipinti murari sono stati restaurati con una tecnologia italiana “a base” di nanoparticelle. Con un’umidità relativa che supera anche il 90 per cento, la conservazione dei dipinti murari rappresenta, in quei luoghi, una sfida particolarmente ardua. Così racconta Piero Baglioni, docente di Chimica fisica all’Università di Firenze, di ritorno dal sito precolombiano di Mayapan, dove sta seguendo i restauri diretti da Maria del Carmen Castro del National Institute of Anthropology and History (Inah). “Tutte le tecniche che stiamo applicando derivano dalla conoscenza acquisita nel campo dei nanosistemi e della soft condensed matter”, spiega Baglioni, che interverrà anche alla XXII Conferenza generale di fisica della materia condensata (Cmd22), inaugurata oggi a Roma nelle sedi della Sapienza e promossa dalla stessa università, dall’Istituto Nazionale di Fisica della Materia (Infm-Cnr) e dalla Scuola Normale Superiore di Pisa.

Si studiano la fisica dei colloidi, i sistemi complessi, le proteine, la chimica dei cementi, e si riproducono i fenomeni che avvengono in queste strutture. Poi però la conoscenza acquisita può essere applicata ad altri campi, anche quello della conservazione del patrimonio artistico. Di diverso, rispetto alle tecniche di restauro precedenti, c’è che tutti i metodi nanotech e quelli mutuati dalla fisica della materia condensata sono rispettosi della composizione dell’opera d’arte. Agiscono cioè, senza alterare le proprietà del materiale. E, soprattutto, non accelerano le reazioni che portano al deperimento dell’opera, come quelli a disposizione fino ad oggi.

Le pitture murarie – spiega Baglioni – si rovinano perché il carbonato di calcio in cui sono imprigionati i pigmenti si degrada col passare del tempo, trasformandosi, per esempio, in solfato. Questa alterazione nella composizione chimica è causata principalmente dall’acqua, dall’aggressione di sali e dall’inquinamento atmosferico che si infiltra nella matrice porosa del muro e negli spazi lasciati vuoti dal carbonato di calcio.

Le tecniche messe a punto dai ricercatori italiani ricostituiscono, là dove non c’è più, il carbonato. Il metodo si chiama Ferroni-Dini e parte dal presupposto che se il composto si è trasformato vuol dire che dell’idrossido di calcio è andato perduto. Quindi va rimesso al suo posto, grazie a nanoparticelle di idrossido di calcio disperse in solvente alcolico (che ne impedisca l’aggregazione). La soluzione viene posta sull’affresco, il solvente evapora, le particelle penetrano e reagiscono con l’aria riformando il carbonato di calcio. E i pigmenti originali si riattaccano al substrato rigenerato.
 
Fino a pochi anni fa, continua lo studioso, si utilizzava una resina polimerica acrilica (tipico il Paraloid), una pellicola sottile che funziona da collante: il dipinto sembrava tornare come nuovo perché la pellicola otturava i pori e impediva la diffrazione della luce che penetra nelle porosità del muro e opacizza la superficie. “Ma l’organico ha caratteristiche chimico-fisiche molto – quando non completamente – diverse dall’inorganico”, puntualizza Baglioni, “e se metto i due materiali a contatto possono accadere due cose: la mia pellicola si degrada velocemente a causa dei metalli contenuti nell’affresco, oppure cambiano le proprietà di superficie del dipinto stesso e si esaltano le condizioni che favoriscono il suo deperimento. In questi casi è l’intervento stesso che distrugge l’opera d’arte. In un luogo con condizioni climatiche temperate come le nostre un affresco restaurato può conservarsi dai 20 ai 50 anni. Ma in Messico un dipinto può andare perduto in due o tre anni”.

Questa tecnica ha preso il via con il restauro degli affreschi, poi si è passati alla carta e ora si comincia ad applicare gli stessi principi agli antichi velieri in legno. Nel caso della conservazione delle opere letterarie o, in generale, in cellulosa, le nanoparticelle di idrossido di calcio (ancora meglio di magnesio) funzionano perché sono basiche, dunque possono essere usate anche per riportare a pH neutro i libri che la naturale acidificazione della carta sta deteriorando. Quella che distrugge le molecole di cellulosa è una reazione autocatalitica, cioè che si auto implementa: man mano che la carta si degrada, si produce un composto acido che aumenta la velocità del deperimento. In questo caso la tecnica fa riguadagnare un po’ della proprietà meccanica e arresta il degrado almeno finché la carta resta a un pH neutro. Il vantaggio delle nanoparticelle è che reagiscono velocemente – soprattutto considerata l’ampiezza della superficie da trattare. L’anidride carbonica contenuta nell’aria, infatti, arriva subito a destinazione e si formano immediatamente i carbonati di calcio e magnesio che restaurano la carta. L’eccesso di questi composti impedisce che la carta torni acida per i successivi 50, 100, o persino 200 anni. L’altro vantaggio di usare particelle così piccole è che non causano alcuna alterazione della qualità estetica e tattile delle opere.

Se la scienza alla base di queste tecniche è ormai consolidata, estremamente promettenti sono le applicazioni degli studi nella fisica della materia condensata per la rimozione delle pellicole usate nei precedenti restauri. Soprattutto in Italia, conclude Baglioni, dove le vecchie tradizioni sono dure a morire e i polimeri organici si stanno abbandonando solo da due anni a questa parte.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here