La mappa delle armi chimiche in Italia

 

Molfetta, Lago di Vico e Colleferro. Ai siti tristemente noti come bacini di inquinamento derivante da armi chimiche, se ne aggiungono altri, come quello del golfo di Napoli o del mare Adriatico di fronte a Pesaro. A suggerirlo sono i documenti militari consultati dall’associazione ambientalista Legambiente, che oggi presenta in Senato il dossier nazionale Armi chimiche: un’eredità ancora pericolosa. In attesa di conoscere la mappa dettagliata dei siti a rischio, e le tecniche di monitoraggio e di bonifica necessarie a contenere i pericoli, Repubblica svela in esclusiva i luoghi e le storie (militari) portati alla luce dal report di Legambiente. 

Si scopre così che a essere a rischio sono soprattutto gli ambienti e le popolazioni dell’Italia centro meridionale, dove giacciono dalla Seconda guerra mondiale sostanze tossiche, irritanti e cancerogene come l’iprite, la lewisite, l’arsenico e il fosgene. Ma se da un lato si conosce, almeno in parte, che faccia abbia il pericolo, dall’altra manca ancora di capire esattamente quanto grande esso sia, vale a dire di conoscere le quantità di armi chimiche abbandonate sul suolo o seppellite sotto terra o in fondo al mare. L’unico modo per provare a capire l’entità del fenomeno è consultare i documenti militari. Esattamente quello che ha fatto Legambiente. 

Si scopre così che i tedeschi, in ritirata incalzati dall’avanzata anglo-americana, scaricarono nel mare di fronte a Pesaro circa 4.300 bombe chimiche contenenti 1.316 tonnellate di iprite, cui si aggiungono 84 tonnellate di testate all’arsenico. Mentre subito dopo la fine del conflitto mondiale, sarebbero stati gli americani a utilizzare il Golfo di Napoli come sito per discarica, gettandovi bombe al fosgene, alla lewisite, proiettili (13mila) e barili all’iprite (438). Come spiegano Repubblica e Veleni di Stato, i dati arrivano dai cosiddetti rapporti Brankowitz, documenti militari resi pubblici e poi secretati di nuovo (durante l’amministrazione Clinton e poi quella di Bush, rispettivamente).  

Ma oltre al Golfo di Napoli e al mare Adriatico di fronte a Pesaro, il dossier di Legambiente mette in luce altri particolari di siti a rischio chimico più noti, già presi in considerazione da studi di monitoraggio e bonifica. È il caso del basso Adriatico, che oltre alle bombe chimiche disperse in mare durante il secondo conflitto mondiale, nel 1999 è diventato anche il bacino di quelle sganciate dalla Nato durante la guerra in Kosovo. Per questa zona inoltre è stato già possibile stimare in parte il danno causato dall’inquinamento chimico (da iprite e arsenico) sui pesci, cui ora la regione Puglia cerca di rimediare con fondi destinati al ripopolamento. 

Infine la mappa del rischio colpisce anche zone in passato dichiarate bonificate, in cui più recentemente è stata rivelata la presenza di inquinanti. È il caso di Ronciglione, cittadina del viterbese sul lago di Vico, che in passato, durante il fascismo, ospitò fabbriche per la produzione di armi chimiche. E sempre legato all’industria è il caso di Colleferro, in provincia di Frosinone, dove però, a differenza di Ronciglione, la produzione di armi chimiche non sarebbe così lontana nel tempo (con  rifornimenti diretti in tempi recenti verso l’Iraq e la Libia, come riportano Repubblica e Veleni di Stato).   

via wired.it

Credit immagine a Incinerator/ Flickr

1 commento

  1. Repubblica ha semplicemente pubblicato ciò che si sa da tempo, grazie all’attività del Coordinamento Nazionale Bonifica Armi Chimiche, nato a Roma nel marzo 2011 a seguito degli incontri-dibattito che si sono svolti per l’Italia a partire dal 2009 e per tutto il 2010 (vedere qui http://www.biologiamarina.eu/Residui%20Chimici.html ). Riuardo alle acque antistanti Pesaro, le analisi sono state pubblicate lo scorso anno dall’ARPA Marche e non è stato trovato nessun inquinante di quelli sopra descritti….in ogni caso concordo sul fatto che occorre indagare ulteriormente sulla vicenda.

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