La fuga di gas nel Mare del Nord

A più di una settimana dalla scoperta della fuga di gas dalla piattaforma petrolifera di Elgin nel Mare del Nord, di proprietà della Total, è possibile fare il punto della situazione. Mentre si studiano i piani d’azione per bloccare la fuoriuscita, è guerra tra la compagnia petrolifera francese e gli ecologisti sull’entità dei danni ambientali causati dall’incidente. Ma se la valutazione dell’impatto ambientale è ancora dubbia, la stima delle perdite da parte della Total è più che certa: 1,12 milioni di euro al giorno di mancati introiti, 750 mila euro al giorno per le operazioni di soccorso, oltre 150 milioni di euro per rimettere a posto le cose. E intanto la compagnia crolla in borsa, trascinandosi dietro anche l’Eni, che possiede il 22% delle quote della Total.

Ma torniamo indietro al 25 marzo, il giorno zero.

Un velivolo di sorveglianza nota una scia di gas condensato attorno alla piattaforma Elgin della Total, a circa 240 km dalle coste della città scozzese di Aberdeen. La scoperta fa scattare l’allarme: c’è una fuga di gas che proviene da un bacino non produttivo localizzato nella roccia sovrastante il pozzo principale di estrazione, a quasi 4 mila metri di profondità. Le operazioni di evacuazione partono immediatamente: 238 lavoratori abbandonano Elgin, e anche la Shell fa sgombrare le vicine piattaforme di Shearwater e Hans Deul temendo esplosioni. Inoltre, la Guardia costiera scozzese ordina una zona di interdizione marina e aerea di circa 8 km attorno al pozzo.

La prima preoccupazione è per una possibile esplosione. Sulla piattaforma, infatti, brucia la fiamma pilota, che nei casi di emergenza serve a far uscire il gas in sicurezza. Ci vuole poco a immaginare il disastro che si verificherebbe se la nube gassosa raggiungesse il fuoco. Fortunatamente, il vento soffia in direzione opposta alla fiamma trascinando il gas lontano e, il 31 marzo, la torcia si estingue da sola scongiurando (momentaneamente) il pericolo di un’esplosione. A questo punto l’attenzione si sposta sui possibili danni ambientali. Secondo un portavoce della Total, le fuoriuscite giornaliere si aggirerebbero intorno ai 200 mila metri cubi di gas, di cui il 90 per cento metano che è un pericoloso gas serra. I conti son presto fatti: nei sei mesi previsti per riportare la situazione alla normalità, saranno immesse nell’atmosfera circa 22 mila tonnellate di metano.

Purtroppo, il metano provoca un effetto serra molto più importante dell’anidride carbonica. Secondo l’IPCC, in un arco di 20 anni l’impatto di questo gas sul surriscaldamento globale è addirittura 72 volte superiore a quello della CO2. Se così fosse, in sei mesi, la quantità di metano pompato nell’atmosfera equivarrebbe a oltre un milione e mezzo di tonnellate. Tanto che Michael Liebreich, amministratore delegato di Bloomberg New Energy Finance, suggerisce su Twitter di obbligare la Total a comprare le cosiddette carbon offsets per compensare le emissioni prodotte. Naturalmente, sulla stima dei danni ambientali le opinioni discordano: se Greenpeace, che ha effettuato una spedizione per raccogliere campioni d’acqua e condurre analisi sulla qualità dell’aria, grida al disastro ambientale, la Total minimizza.

Certamente, per quantificare i danni bisognerà aspettare la fine delle operazioni. A oggi, la Total ha due piani per bloccare le perdite, possibilmente da portare avanti in parallelo: pompare fango nel condotto che conduce al bacino sotterraneo per tappare la fuga e scavare due pozzi di sfogo. Ma le operazioni sono rallentate da condizioni metereologiche sfavorevoli e da problemi di sicurezza che impediscono agli ingegneri di tornare sulla piattaforma. Il pericolo esplosioni, infatti, è ancora troppo elevato a causa dell’alta densità di gas nell’atmosfera. In attesa di vedere come andrà a finire, la Total è sotto accusa. Secondo un’inchiesta del Guardian, sulle piattaforme di trivellazione del Mare del Nord, la maggior parte delle quali di proprietà della compagnia francese, si sono verificati tra il 2009 e il 2010 oltre 100 incidenti (per lo più tenuti nascosti).

Il problema non è solo nella sicurezza delle operazioni di estrazione, ma anche nella natura del sito. Il Mare del Nord, infatti, è un’area a elevata attività petrolifera che comprende molti pozzi di gas a profondità di oltre 6 mila metri. Qui, le condizioni di temperatura e pressione sono estreme, e quindi molto pericolose per chi ci lavora. Ecco perché gli ambientalisti chiedono da tempo la cessazione dell’estrazione da questi bacini sotterranei. Una richiesta che rimane inascoltata: seppur tecnologicamente molto problematiche e ad alto rischio, le perforazioni di questi pozzi sono diventate molto convenienti in seguito all’impennata dei prezzi dei carburanti.

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