Come far parlare i qubit

Dopo il Nobel ad Haroche e Wineland, ancora un decisivo passo avanti nel campo dell’ottica e dell’informatica quantistica, la branca della fisica che studia come utilizzare fotoni ed elettroni per memorizzare e trasportare informazioni all’interno di un computer. Un gruppo di ricercatori del Joint Quantum Institute (JQI) ha individuato una tecnica che permette di trasferire dati da un qubit (l’unità elementare dell’informazione quantistica, equivalente al bit) all’altro, su distanze dell’ordine dei millimetri. La scoperta è stata pubblicata sulla rivista Nature.

Perché ottica e informatica quantistica sono così importanti e seguite, tanto da valere il premio Nobel di quest’anno? Il motivo sta nelle straordinarie proprietà delle particelle quantistiche, che possono esistere contemporaneamente in stati diversi (un principio detto sovrapposizione), o più precisamente in una “miscela” di stati: questo permette una capacità di memorizzazione delle informazioni molto più veloce ed efficace dei “classici” bit, che invece prevedono solo due stati mutualmente esclusivi, acceso o spento.

Finora, gli scienziati erano riusciti a trasferire informazioni tramite qubit solo da un elettrone al suo vicino, mentre non era ancora possibile compiere la stessa operazione su distanze più grandi. Il lavoro attuale dei ricercatori, invece, propone un cosiddetto “bus quantistico” per trasportare i dati da un qubit all’altro, usando un circuito superconduttore. Dispositivi di questo tipo fanno sì che le particelle “condensino” in coppie, dette coppie di Cooper, che permettono di osservare gli effetti quantistici a livello macroscopico.

In particolare, i ricercatori hanno mostrato come sia possibile determinare lo spin (una caratteristica delle particelle quantistiche) dei qubit misurando il campo elettromagnetico all’interno del circuito: “Potremmo servirci di questo campo”, sostiene Jason Petta, uno degli autori del lavoro, “per accoppiare qubit separati da grandi distanze: il nostro esperimento è un primo passo in questa direzione”.

Riferimenti: Nature doi:10.1038/nature11559

Credits immagine: johnmuk / Flickr

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