Armi chimiche in Siria, l’importanza delle Convenzioni

È una notizia passata piuttosto inosservata, anche se l’argomento delle armi chimiche trova da tempo spazio su tutte le prime pagine dei giornali: dall’8 al 19 aprile 2013 l’Organization for the Prohibition of Chemical Weapons (OPCW) ha tenuto a l’Aia in Olanda la 3a Conferenza di Revisione della Chemical Weapons Convention (CWC), e le rinnovate preoccupazioni per il possibile uso di questi ordigni nella guerra civile siriana avrebbero forse richiesto una maggiore attenzione per questo evento. Va ricordato infatti che in merito a questo conflitto il presidente Obama ha dichiarato che l’uso di armi chimiche costituisce una “linea rossa” la cui trasgressione “avrebbe modificato i sui calcoli”. Egli ha però lasciato aperta l’interpretazione precisa di queste sue parole.

Infatti la Casa Bianca, memore degli errori compiuti dieci anni fa nel caso dell’Iraq, insiste sul riscontro di “fatti credibili e confermati”, ma questa comprensibile esigenza incontra due difficoltà principali: innanzitutto, anche se fosse confermato che agenti chimici tossici sono stati usati nel conflitto siriano, resterebbe da verificare quali delle parti li ha usati, dato che il governo siriano e i ribelli si accusano reciprocamente di tale misfatto (“U.S. taking another look at arms for Syrian rebels”, International Herald Tribune, 2 maggio 2013). In secondo luogo le verifiche sono complicate dal fatto che la Siria non aderisce alla CWC e quindi non è automaticamente sottoposta al relativo regime di ispezioni. Il governo di Damasco ha richiesto all’ONU l’apertura di un’indagine sui fatti contestati e il 21 marzo il Segretario Generale Ban Ki-moon ha autorizzato la costituzione di una commissione di 15 esperti, ma l’ispezione non è cominciata perché non c’è accordo sui siti da controllare. D’altra parte la non adesione della Siria alla CWC fa sì che anche la consistenza e la collocazione del suo arsenale siano oggetto solo di speculazioni: la stampa (“Syria’s chemical weapons stockpile and human impact”, BBC News, 26 aprile 2013) citando fonti di servizi segreti occidentali stima l’arsenale in circa 1.000 tonnellate di agenti disperse in una cinquantina di siti, e anche l’annuario SIPRI 2012 parla di cinque siti di produzione, ma non riporta cifre precise. Tutte queste considerazioni non fanno che sottolineare l’importanza della CWC e la delicatezza delle situazioni che sfuggono alla sua applicazione.

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Aperta alla firma degli stati nel 1993, la Convenzione è entrata in vigore nel 1997 dopo la ratifica dei primi 65 paesi, e – a differenza dalla precedente Convenzione di Ginevra del 1925, che ne proibiva solo l’uso – vieta anche la produzione e la detenzione degli agenti chimici tossici, prevedendo tra l’altro un efficace sistema di controlli e di ispezioni. Attualmente 188 dei 196 stati dell’ONU hanno ratificato la CWC; sei paesi non hanno firmato (Angola, Corea del Nord, Egitto, Somalia, Siria e Sudan del Sud) mentre due (Birmania e Israele) non lo hanno ratificato. Gli stati che al momento della loro adesione erano in possesso di arsenali chimici li hanno dichiarati e si sono impegnati a distruggerli sotto il controllo della OPCW entro dieci anni dalla entrata in vigore della convenzione (cioè entro il 2007) e, avendo beneficiato di un’ulteriore estensione di cinque anni, avrebbero dovuto completare la distruzione nel 2012. Invece alla data della conferenza dell’Aia di quest’anno la distruzione arrivava solo al 78% degli arsenali con una previsione del 99% non prima del 2017. Oltre l’Iraq, che deve completare le operazioni di bonifica dei suoi vecchi bunker, i tre paesi ritardatari sono Libia, Russia e USA, ma molti considerano questi rinvii come dovuti principalmente a fattori tecnici ed economici più che a mancanza di volontà politica. Nonostante queste difficoltà la CWC resta comunque un trattato più avanzato rispetto alla pur importante e precedente Biological and Toxin Weapons Convention(BTWC), firmata nel 1972 ed entrata in vigore nel 1975, che manca tra l’altro di un sistema accettato di verifiche e di ispezioni. La BTWC è stata finora ratificata da 170 stati, mentre 10 (tra i quali Egitto e Siria) non hanno ratificato e 16 (tra i quali Israele e Sudan del Sud) non hanno firmato.

La 3a Conferenza di Revisione della CWC cadeva dunque in un momento opportuno e i suoi documenti ufficiali sono disponibili sul sito della OPCW (www.opcw.org). Alla data in cui scriviamo, il Documento Finale e l’annessa Dichiarazione Politica – adottati “per consenso”, come specifica il comunicato stampa del 19 aprile della OPCW – non sono stati ancora diffusi ufficialmente, tuttavia, se ne conoscono i contenuti e, soprattutto, i problemi lasciati aperti per permettere di raggiungere il “consenso”.

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Il Documento Finale comunque lascia fuori una serie di problemi rilevanti che sono stati sollevati sia da stati membri sia da esperti del settore sia, infine, dalle 47 ONG che hanno ufficialmente partecipato alla conferenza. Preoccupano i tempi per il completamento della distruzione degli arsenali dichiarati dai paesi membri ma, soprattutto, colpisce l’impossibilità di raggiungere un consenso sulla proibizione dell’uso degli ICA (Incapacitating Chemical Agents) come “strumenti di controllo dei disordini”. Questi ultimi sono degli irritanti che provocano negli individui colpiti l’impulso ad allontanarsi da un luogo di assembramento per evitare di restare più a lungo esposti alla loro azione; gli ICA invece hanno effetti sulla coscienza o sulle capacità decisionali degli individui, che quindi rischiano di restare esposti a quantità che possono avere conseguenze fatali. Basterà ricordare i catastrofici risultati dell’uso di tali agenti da parte delle forze dell’ordine russe durante il sequestro di 750 persone, in gran parte bambini, nel Teatro Dubrovka di Mosca avvenuto nel 2002 ad opera di terroristi: oltre a 40-50 sequestratori, morirono altre 125 persone a causa dell’esposizione alle massicce dosi di ICA diffuso in sala tramite il sistema di ventilazione. Del resto, i confini fra questi tipi di agenti chimici e tra i loro possibili usi sono piuttosto labili: basterà ricordare, per restare più vicini a noi, le polemiche suscitate dall’uso dei gas durante i disordini al G8 di Genova del 2001 (si veda ad esempio E. Magnone e E. Mangini, La Sindrome di Genova, 2002). Ma gli ICA son ben più che lacrimogeni e non si può quindi che concordare con Leiv Sydnes – un chimico dell’Università di Bergen con ruoli di primo piano nella OPCW – che in una nota su Nature del 4 aprile scorso ha sostenuto la necessità di proibirne l’uso non bellico destinato al controllo dei disordini, uso oggi invece consentito dalla CWC. Con disappunto dobbiamo registrare l’incapacità di raggiungere un consenso su questo argomento.

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Sfuggono invece alla attenzione [di Sydnes] una serie di entità non statali che di recente sono venute prepotentemente alla ribalta: individui particolarmente potenti, gruppi rivoluzionari, fazioni in guerra civile e cellule terroristiche (“UN’s del Ponte says evidence rebels ‘used sarin’, BBC News, 6 maggio 2013). Queste entità traggono vantaggio sia dal trafugamento di armi chimiche prodotte da altri, sia dalle nuove possibilità di produrre quantità piccole, ma letali, di sostanze tossiche sfuggendo alla sorveglianza del trattato. Controllare la diffusione dei microreattori diventa quindi prioritario. Attualmente questi sono diventati molto comuni a causa della loro robustezza e della facilità del loro impiego, e hanno conseguentemente reso anche relativamente semplice installare e smantellare rapidamente dei piccoli impianti per la produzione di agenti tossici. Sarebbe stato quindi opportuno che la OPCW prendesse in considerazione anche la possibilità di registrare gli acquirenti di microreattori per renderli rintracciabili. Ma altrettanto opportuna sarebbe stata una maggiore attenzione dell’opinione pubblica su questi temi di particolare attualità.

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Credits immagine: Vir Vikram Singh via Wikimedia Commons

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