Depenalizzare la prostituzione per combattere l’Hiv

Ci sono sei posti vuoti sulle poltrone della 20ma Conferenza Internazionale sull’Aids in corso in questi giorni a Melbourne.. Sono i posti che avrebbero dovuto occupare Pim de Juijer, Joep Lange, Lucie van Mens, Martine de Schutter, Glenn Thomas e Jacqueline van Tongeren, i sei scienziati che erano a bordo delBoeing 777 Malaysia Airlines abbattuto pochi giorni fa. Il modo migliore per onorarne la memoria, dicono i loro colleghi, “è proseguire con il nostro lavoro e con la lotta all’Aids”. Ed è quello che stanno facendo. Alla conferenza sono stati presentati sette articoli pubblicati su Lancet sul delicato tema della prostituzione: gli scienziati, in particolare, hanno sostenuto, dati alla mano, la necessità di depenalizzare i lavori legati al sesso per migliorare la qualità della vita di chi li esercita, e fornire loro gli strumenti adeguati per la prevenzione da Hiv. Secondo i ricercatori, la depenalizzazione potrebbe non solo ridurre le infezioni da Hiv tra i lavoratori del sesso fino al 46% in paesi come India e Kenya, ma potrebbe anche aiutare a controllare la pandemia di Aids nella sua totalità. “Non ci sono alternative”, sostengono gli editori di Lancet.

Reuters spiega che sono 116 i paesi in cui vigono leggi contro la prostituzione. Uno dei lavori, a firma Stefan Baral, epidemiologo alla John Hopkins University, si è concentrato particolarmente sui lavoratori di sesso maschile: “Quando si pensa a un lavoratore del sesso, l’immagine più comune è quella di una donna”, racconta lo scienziato a The Verge. “Purtroppo, sappiamo ancora troppo poco di come si diffonde l’epidemia tra gli uomini”. Un possibile intervento suggerito da Baral è di concentrare la ricerca partendo dai luoghi più frequentati da uomini lavoratori del sesso, come parchi, night club e bar. Potrebbe essere l’inizio di un lungo cammino verso una sensibilizzazione che, alla fine, abbasserebbe i tassi di trasmissione della malattia. “Se si forniscono alle persone la giusta educazione e i giusti strumenti, e nonostante ciò persistono in comportamenti sbagliati, c’è qualcosa che non funziona”, spiega Baral. “Ma nel caso dei lavoratori maschi del sesso, non l’abbiamo ancora fatto. È un mondo in gran parte inesplorato”.

Un altro lavoro, a firma Linda-Gail Bekker, fa uso di modelli matematici per dimostrare quali interventi possano ridurre le infezioni tra le donne. Tra le conclusioni, l’intervento più efficace sarebbe quello di aumentare la profilassi pre-esposizione – l’uso della pillola Truvada, per esempio, un farmaco che aiuterebbe a prevenire il contagio. Una strategia simile, secondo la scienziata, “potrebbe ridurre i tassi di infezione fino al 40%”. Ma, perché la profilassi sia davvero efficace, “è necessario che l’assunzione avvenga in un ambiente in cui il lavoro sessuale non sia penalizzato”.

Riguardo ai transgender, un altro gruppo di scienziati enfatizza il fatto che “nonostante la straordinaria diffusione della malattia” ci siano ancora pochi dati su prevenzione, cure e interventi specifici. I transgender, tra l’altro, sono esposti a più fattori di rischio rispetto agli altri, tra cui mancanza di autostima, uso di droghe, discriminazione e tendenza al suicidio a causa della stigmatizzazione sociale. Ma anche a pericoli derivanti dall’iniezione di ormoni o silicone con aghi potenzialmente contaminati e dalla pratica del sesso anale passivo, più pericoloso in termini di contagio rispetto al sesso vaginale. Inoltre, si sa troppo poco sulla sensibilità al virus della neovagina, la vagina creata artificialmente nelle donne che hanno subito l’operazione di ricostruzione dei genitali.

Gli studi, secondo Baral, potrebbero finalmente fornire agli scienziati le argomentazioni e l’evidenza per chiedere interventi su misura per i lavoratori del sesso: “È una di quelle volte in cui scienza e diritti umani vanno di pari passo”.

Via: Wired.it

Credits immagine: jacilluch/Flickr

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