Perché il Governo fa la guerra alle energie rinnovabili?

Che senso ha far crescere una filiera e poi affossarla? È questa la domanda che AssoRinnovabili, associazione che raggruppa un migliaio di produttori di energie verdi, ha posto al Governo in una conferenza stampa indetta in occasione dell’emanazione di uno dei tanti provvedimenti vessatori emessi negli ultimi anni, con il risultato di causare la chiusura di migliaia di piccole e medie imprese nel settore, che pure risultava uno dei più promettenti e dinamici nel panorama produttivo. Da uno studio commissionato da GreenPeace ad Althesys, società di consulenza indipendente,  emerge che il bacino delle fonti rinnovabili in Italia nel 2013 (all’inizio del crollo verticale derivante dai recenti provvedimento governativi) valeva 6 miliardi di euro, con 50.000 unità di sola occupazione diretta, il doppio di Fiat Auto, e potrebbe crescere, con una politica energetica innovativa, fino a 100.000 unità nel 2030.

Perché il Governo del grande cambiamento ha deciso di intraprendere una guerra contro il solare, si chiedono similmente operatori, istituti di consulenza e associazioni ambientaliste, rivolgendosi al Premier Renzi, per comprendere le recenti scelte compiute in tema di produzione fotovoltaica? Dal luglio 2005, che ha visto l’uscita del primo decreto di incentivazione di questa produzione solare, il cosiddetto “Conto Energia”, si sono susseguite, in senso peggiorativo, altre 5 edizioni del programma, fino al termine degli incentivi, sancita con decreto del luglio 2013. Ciò che caratterizza gli ultimi indirizzi governativi (governi Monti, Letta e Renzi) non è tanto la drastica e precoce riduzione delle tariffe incentivanti fino all’abolizione delle stesse, ma la preoccupante mancanza di un quadro certo di riferimento normativo per qualsivoglia investimento, dall’impianto industriale in totale cessione alla rete a quello domestico in autoconsumo. La volontà di stroncare precocemente la diffusione del fotovoltaico (con tariffe che nel IV° Conto cambiavano addirittura con cadenze mensili) ha prevalso su corrette regole di politica industriale, che impongono un orizzonte temporale certo e pluriennale per gli investitori.

L’elenco dei provvedimenti irrazionali e vessatori è lungo; tra i principali:

  • riduzione sostanziale e retroattiva degli incentivi per gli impianti fotovoltaici più grandi, e modifiche delle modalità di pagamento per i più piccoli, con sostanziale sconfessione delle apposite convenzione sottoscritte dal GSE (Gestore di Servizi Energetici) con gli utenti (Decreto detto “Spalmaincentivi”);

  • drastica riduzione del corrispettivo per l’energia prodotta dagli impianti ed immessa in rete; mentre l’energia elettrica prelevata si paga oltre 20 c€/kWh, secondo i contratti stipulati con il fornitore, quella ceduta alla rete vale per il Governo 4-5 c€/kWh; una disparità che non trova riscontro in una corretta analisi dei costi;

  • eliminazione dei Certificati Verdi per la produzione da fonti rinnovabili, incentivazione rea di aver determinato un vigorosa espansione della produzione eolica;

  • introduzione di “tetti” e di un sistema di “aste” per limitare e frenare l’assegnazione di nuove potenze impiantistiche, con procedure burocratiche che, come era prevedibile, hanno scoraggiato i potenziali investitori.

In questa forsennata volontà punitiva, si è giunti a provvedimenti indecenti e privi di qualunque razionalità, come la decisione di far pagare al produttore da fonti rinnovabili gli oneri generali del sistema elettrico anche per l’energia consumata direttamente sul sito dall’utente e non immessa in rete (sic!).

Gli effetti sugli investimenti sono stati evidenti. In controtendenza rispetto all’andamento UE, in cui negli ultimi anni la quota di potenza elettrica rinnovabile installata rispetto al totale è in continuo aumento (79% nel 2014, soprattutto a scapito delle centrali a gas), in Italia si è avuto un brusco calo delle installazioni. Nel fotovoltaico si è passati bruscamente dai 9000 megawatt installati nel 2011 a 400 megawatt nel 2014; il nuovo eolico installato nel 2014 si è ridotto del 70% rispetto al 2013. Tendenze negative che sono continuate o ulteriormente peggiorate nel 2015. In questo contesto ostile, molte aziende italiane che operano nel settore hanno chiuso sedi o trasferito produzioni e impianti. Nel 2014 l’88% della potenza installata da imprese italiane del settore si è realizzata all’estero. Secondo il Rapporto IREX 2015, presentato lo scorso aprile a Roma alla presenza del Presidente GSE, il 2014 ha registrato in Italia un drastico calo degli investimenti nelle fonti rinnovabili delle imprese italiane, che hanno dirottato i loro investimenti all’estero. Dei 551 megawatt fotovoltaici installati nel 2014 dalle imprese italiane, solo il 5% sono stati realizzati in Italia. In diminuzione anche gli impianti a biomassa.

Per dare una spiegazione plausibile a queste scelte energetiche, apparentemente suicide e contrarie agli interessi nazionali, è utile allargare l’analisi all’intero comparto energetico e collegare alcuni segnali significativi che la cronaca ha fornito negli ultimi tempi.

In un’audizione alla Commissione Industria del Senato nell’ottobre 2014 dell’Amministratore Delegato Starace, Enel mostra (finalmente!) qualche segno di cambiamento rispetto alla politica energetica seguita per mezzo secolo, basata su un modello accentrato e dominato dalle fonti fossili. Più per necessità che per virtù, si potrebbe commentare. Fatto sta che l’Ente prevede la chiusura o la conversione di 23 centrali termoelettriche per un totale di 11.000 MW, tra cui quella di Bari. Le cause: un mix di domanda in calo, “overcapacity” derivante anche da errate scelte di programmazione, impetuosa diffusione delle fonti rinnovabili.

Dal 2005 al 2014 Eni, il colosso petrolifero che per anni ha registrato ricavi record tra le aziende italiane, ha visto un dimezzamento dell’utile da 17 a 8 miliardi di euro. E non solo per effetto del basso prezzo del petrolio, ma anche per scelte sbagliate, come mostra il caso Kashagan, un giacimento di petrolio e gas, bollato da l’Economist come ““più grande fallimento dell’industria petrolifera”, al centro di un’indagine anticorruzione internazionale, costato finora alla sola Eni 9 miliardi di dollari e non ancora in produzione.

Nel settore gas Saipem, storico fiore all’occhiello dell’Eni, chiude oggi i bilanci in perdita e prevede di lasciare a casa nei prossimi 3 anni 8.800 persone.

Non occorre molto disincanto per dedurre che la potente lobby delle fonti fossili, tradizionalmente influente sulle decisioni governative, si sia attivata per arrestare o almeno frenare la dilagante diffusione delle fonti rinnovabili, che in Italia sono arrivate a coprire il 40% circa dei fabbisogni elettrici. Come non occorre grande sagacia per notare che la campagna in corso contro le rinnovabili è strettamente collegata, negli indirizzi governativi, ai recenti provvedimenti a favore di trivellazioni petrolifere e gasdotti.

Solo nel medio e basso Adriatico, nello Ionio e nel Canale di Sicilia sono attivi una quindicina di permessi di ricerca già rilasciati, mentre sono pronte un’altra cinquantina di richieste per ricerca, prospezione e concessione, per un’area complessiva interessata di circa 130.000 kmq, 6 volte la superficie continentale pugliese!

Con il Decreto dal titolo fuorviante di “Sblocca Italia” del settembre 2014 il Governo ha previsto, calpestando direttive comunitarie e autonomie regionali, palesi e vergognose facilitazioni alle compagnie del petrolio e del gas. Anche l’ostinazione dei ministeri competenti in appoggio alla realizzazione del gasdotto TAP (Trans Adriatic Pipeline), che dovrebbe approdare nel Salento, nonostante i vistosi cali di consumo di metano a livello europeo e nazionale, mostra come le scelte siano dettate più da pressioni lobbistiche che da valutazioni obiettive e indipendenti.

Nonostante l’impegno, questa campagna governativa è destinata nel medio-lungo periodo a fallire; ormai gli scenari a livello mondiale puntano, in modo ormai irreversibile, verso modelli decentrati e basati sulle fonti rinnovabili. Queste resistenze lobbystiche potranno tuttavia provocare molti danni alla nostra economia, non solo in termini di occupati persi, ma anche e soprattutto per il mancato aggancio delle nostre comunità alla green economy che si sta affermando nel settore dell’energia. Rischiamo così, a causa di scelte tutt’altro che trasparenti, di prolungare l’agonia di fonti obsolete ed inquinanti, come quelle fossili; ma anche di perpetuare per le tecnologie rinnovabili, delle cui fonti siamo peraltro così ricchi, la stessa dipendenza dall’estero che abbiamo sofferto per decenni nelle tecnologie legate al petrolio.

Così, mentre anche gli arabi ricchissimi di petrolio realizzano megaimpianti fotovoltaici e termodinamici, noi rischiamo di devastare ampie aree marine e terrestri per ricavare una fonte energetica che darà un contributo al fabbisogni nazionali di pochi percento per un orizzonte temporale che non supererà pochi decenni!

Il futuro in ogni caso, in linea con le più recenti direttive comunitarie e le previsioni dei più autorevoli centri di ricerca, sarà caratterizzato dalla produzione diffusa da fonti rinnovabili, che arriveranno a coprire la gran parte dei fabbisogni, relegando le fonti fossili ad un ruolo residuale. I nostri grandi enti energetici, soprattutto quelli che oggi occupano posizioni dominanti, dovranno accettare questa realtà ed evolversi in questa direzione, offrendo servizi e non solo energia, peraltro ai prezzi tra i più alti d’Europa. Non si tratta solo di seguire i principi dell’ecologia o di combattere i cambiamenti climatici, ma di attenersi a basilari regole del libero mercato. Molti istituti finanziari hanno studiato in Europa i rischi finanziari degli investimenti nel settore delle fonti fossili. La Standard Life, un fondo previdenziale inglese che gestisce 250 miliardi di sterline per conto di cinque milioni di risparmiatori, ha scoperto che possedere quote azionarie dei colossi di carbone e petrolio è uno dei rischi maggiori per gli investitori.

Basteranno questi segnali al nostro Governo per cambiare rotta?

Credits immagine: Rob Baxter/Flickr CC

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