I pesci che si sono adattati all’inquinamento

pesci
(Credits: Andrew Whitehead/UC Davis)
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(Credits: Andrew Whitehead/UC Davis)

In molti periscono, ma c’è anche chi vince e riesce ad adattarsi nella corsa dell’evoluzione per stare al passo con i cambiamenti antropici a livello globale. È il caso di alcuni Ciprodontiformi atlantici, pesci conosciuti come killifish, che stanno reagendo rapidamente all’elevata contaminazione delle aree costiere che costituiscono il loro habitat, mostrandosi in grado di sopravvivere a livelli di inquinanti 8000 volte superiori alla normale dose letale. La ricerca, coordinata da Andrew Whitehead dell’University of California di Davis, e pubblicata su Science, ha dimostrato che questi pesci sono caratterizzati da un elevato tasso di mutazione genetica, più alto di qualsiasi altro vertebrato, e maggiore è la diversità, più velocemente può agire l’evoluzione.

Un tasso evolutivo così alto finora era stato riscontrato solo in alcune piante e insetti. Nei pesci il primo caso documentato risale al 2011 quando uno studio, sempre pubblicato su Science, raccontava dei merluzzi del fiume Hudson immuni alle altissime concentrazioni di PCB (policlorobifenili) di quelle acque.

Anche la specie analizzata dal gruppo di Whitehead, il Fundulus heteroclitus, proviene da zone altamente antropizzate: le foci salmastre della costa occidentale americana, da Newark Bay nel New Jersey a Bridgeport in Connecticut e il fiume Elizabeth in Virginia, i cui insediamenti industriali scaricano sin dagli anni ’50 varie sostanze inquinanti, come diossine, metalli pesanti e idrocarburi, molti dei quali possono agire come interferenti endocrini, causando danni a lungo termine nelle popolazioni colpite. I killifish vivono in veri e propri bacini tossici, eppure sembrano non risentirne. Come mai?

Per capirlo il team di Whitehead ha campionato circa 400 esemplari provenienti sia dalle zone inquinate che da siti di controllo. Nessuno mostrava cambiamenti morfologici evidenti, ma i loro codici genetici raccontavano una storia diversa.

Dopo il sequenziamento infatti, i genomi di tutti gli organismi prelevati hanno rivelato la presenza di mutazioni che determinano un silenziamento dei meccanismi di danno cellulare in risposta agli inquinanti, variazioni che sono state ritrovate anche in popolazioni tolleranti diverse, suggerendo ai ricercatori di trovarsi di fronte a un fenomeno di convergenza. Il complesso set di mutazioni individuato è risultato raro negli esemplari della stessa specie provenienti da siti non contaminati, questo perché probabilmente non forniscono alcun vantaggio evolutivo ai pesci di aree non inquinate.

“Questo studio mostra come differenti popolazioni di killifish atlantici esposti a fonti di inquinamento, abbiano sviluppato una tolleranza ai composti tossici attraverso cambiamenti in un solo meccanismo molecolare, che potrebbe giocare un ruolo simile in molti altri organismi esposti agli inquinanti” spiega George Gilchrist, direttore del programma nel National Science Foundation’s Division of Environmental Biology, che ha finanziato la ricerca.

Bisogna dunque sperare nell’evoluzione per risolvere il problema dell’inquinamento? “Alcune persone leggeranno questi risultati in modo ottimistico, pensando che gli organismi siano in grado di evolvere in risposta a ciò che stiamo facendo all’ambiente. Sfortunatamente molte delle specie che vogliamo proteggere probabilmente non sono in grado di adattarsi a questi rapidi cambiamenti perché non hanno un elevato tasso di mutazione genetica” sostiene Andrew Whitehead.

Neanche il caso dei killifish deve essere visto con troppo ottimismo: lo sforzo adattativo a queste condizioni estreme infatti ha un costo. Diventando sempre più specializzati per resistere all’inquinamento, questi pesci stanno perdendo un po’ della loro diversità, un capitale prezioso per tutti gli organismi viventi.

La scoperta del team di Whitehead ha però posto importanti basi per indagare in modo più approfondito quali geni possano determinare una maggior tolleranza a specifici inquinanti. “Se riuscissimo a individuare quali geni possono conferire sensibilità in altri animali vertebrati come noi, forse potremmo capire come persone diverse, con le loro particolari mutazioni in questi geni possano reagire alle sostanze inquinanti” conclude Whitehead.

Riferimenti: Science

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