La cuffia che legge i pensieri dei pazienti locked-in

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(Credit: Wyss Center)

Completamente immobili, nutriti da una sonda, attaccati a un ventilatore. È questa la condizione in cui versano le persone affette dalla cosiddetta sindrome locked-in totale (Clis), quella in cui, a causa di malattie neurodegenerative o paralisi, la mente è intrappolata nel corpo, senza alcuna possibilità di comunicare con l’esterno.

Almeno fino a oggi: l’équipe di Niels Birbaumer, neuroscienziato dell’Università di Tübingen in Germania, ha infatti appena sviluppato un dispositivo che pare in grado di stabilire una relazione con chi non può più muovere nemmeno gli occhi. In particolare, si tratta di un’interfaccia computer-cervello che riesce a leggere semplici pensieri dei pazienti locked-in e a renderli intellegibili all’esterno. I primi risultati della sperimentazione, pubblicati su Plos Biology, sono abbastanza sorprendenti e incoraggianti.

La ricerca in questo campo in realtà non è nuova: da tempo, i ricercatori cercano un modo per comunicare con chi a causa di malattie come la sclerosi laterale amiotrofica (Sla), la sindrome neurodegenerativa che progressivamente porta via la capacità di muoversi mantenendo inalterate le funzioni cognitive, è considerato bloccato in una sorta di realtà parallela tangente alla nostra.

Il dispositivo di Birbaumer, in particolare, è una sorta di cuffia che, grazie a una tecnologia a infrarossi, capta le variazioni del flusso sanguigno nelle diverse aree del cervello di chi la indossa e trasmette i dati a un computer, che li analizza ed è in grado di comprendere, per esempio, quando il paziente risponde “sì” oppure “no” a delle semplici domande.

“È la prima volta che riusciamo stabilire una comunicazione affidabile con questi pazienti. Credo sia un passo importante sia per loro che per le loro famiglie”, afferma Birbaumer.

Lo studio ha coinvolto per più di un anno 4 pazienti, 3 donne e un uomo di età compresa tra 24 e 76 anni, affetti da Clis, tutti soggetti tenuti in vita artificialmente e assistiti nel proprio contesto familiare. Nelle fasi iniziali dell’esperimento, il computer ha imparato a decodificare gli schemi cerebrali dei partecipanti, cui sono state rivolte domande molto semplici (“Berlino è la capitale della Francia?”, per esempio): in questo modo, il software ha messo in correlazione le specifiche variazioni del flusso sanguigno nelle diverse aree del cervello con una risposta affermativa o negativa.

Con risultati estremamente positivi: “Il momento in cui, dopo trent’anni di tentativi, l’apparecchio ha funzionato”, confida ancora Birbaumer, “è stato uno dei più soddisfacenti della mia vita”. Successivamente, i ricercatori hanno posto ai pazienti domande più personali, relative alla percezione della qualità della propria vita: i soggetti coinvolti nello studio hanno affermato di essere “felici”, nonostante le innegabili difficoltà legate alla loro situazione. In proposito va sottolineato, però, che si tratta di pazienti che avevano espresso la propria volontà di essere mantenuti in vita artificialmente già prima che il corpo li abbandonasse.

“Sembra che vedano la vita in modo più positivo”, spiega Birbaumer, ipotizzando che, non potendo finora interagire col mondo in alcun modo, i pazienti locked-in vivano in una condizione simile alla meditazione.

Al di là di queste speculazioni, comunque, resta il fatto che il dispositivo tedesco apre la strada a ulteriori applicazioni in campo clinico. Birbaumer ha già dichiarato di voler migliorare lo strumento per dare la possibilità ai pazienti di interagire con il mondo esterno in modo più complesso, e non solo di rispondere a domande semplici. In futuro, inoltre, il dispositivo potrebbe essere utilizzato anche da pazienti intrappolati nel proprio corpo a causa di altre patologie o di traumi, come quelli che si trovano in un cosiddetto stato vegetativo.

Via: Wired.it

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