Epilessia, cos’è e come si cura

(Credits: ZEISS Microscopy/Flickr CC)

Nel mondo ne soffrono 65 milioni di persone: 500mila solo in Italia, con più di 30mila nuovi casi ogni anno. Sono i numeri dell’epilessia: una malattia sociale debilitante e spesso difficile da curare, che il Parlamento europeo e l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) hanno indicato tra le priorità della ricerca e dell’assistenza in campo sanitario. Proprio per questo, ogni anno il 13 febbraio ricorre la Giornata mondiale dell’epilessia, un’occasione per ricordare i problemi dei pazienti che convivono con questa patologia, e raccogliere fondi per la ricerca. In Italia se ne occupa la Lice (Lega italiana contro l’epilessia), che quest’anno ha deciso di illuminare di viola alcuni dei più importanti monumenti del nostro paese per illustrare simbolicamente la necessità di portare fuori dall’ombra (Out of Shadow è infatti il nome della campagna internazionale) una malattia comune e troppo poco conosciuta (per scoprire tutte le iniziative in programma basta visitare il sito dell’associazione). Ecco allora un vademecum per chi volesse saperne di più.

La malattia.
L’epilessia è una patologia neurologica, caratterizzata da un funzionamento anomalo dell’attività elettrica del sistema nervoso cerebrale, un’eccitazione improvvisa ed eccessiva di un aggregato di neuroni (un focolaio) che da vita alle cosiddette crisi epilettiche. L’esordio della malattia è più comune nell’infanzia e una volta superati i 60 anni di età, e le cause del disturbo non sono ancora perfettamente note.

Nella maggior parte dei casi comunque interagiscono una componente genetica, che predispone allo sviluppo della malattia (in casi rarissimi, circa l’1-2% del totale, l’epilessia è causata dall’alterazione di un singolo gene), e fattori ambientali come traumi, stress, infezioni, tumori, ictus, che ne scatenano gli effetti. La caratteristica più evidente della malattia comunque sono i famosi attacchi epilettici.

Gli attacchi.
La forma che possono prendere varia molto: da una semplice crisi di assenza, in cui il paziente sembra avere lo sguardo perso nel vuoto per qualche secondo, a crisi convulsive violente che possono anche mettere a rischio la vita. Come il tipo e la severità degli attacchi, anche la frequenza con cui colpiscono varia da paziente a paziente. Per parlare di epilessia comunque bisogna sperimentarne almeno 2 attacchi epilettici a distanza di più di 24 ore, perché esistono molte patologie che possono indurre sintomatologie simili. Dopo la fase attiva dell’attacco i pazienti sperimentano solitamente anche una seconda serie di sintomi nella cosiddetta fase post-critica o di risoluzione: un periodo di tempo che dura in media dai 3 ai 15 minuti (ma può prolungarsi anche per ore) in cui si sperimentano sintomi come stanchezza, mal di testa, difficoltà a parlare, comportamento anormale e nel 10% circa dei casi possono avvenire episodi di psicosi.

Diagnosi e terapia
I sintomi dell’epilessia possono essere confusi con quelli di altri disturbi neurologici come l’emicrania o la narcolessia. Per giungere a una diagnosi corretta non basta quindi esaminare i sintomi e la storia medica di un paziente, ma bisogna fare ricorso a diversi esami specialistici. Una volta arrivati alla diagnosi comunque, esistono farmaci e altre terapie che possono alleviare i sintomi. I farmaci in questione sono i cosiddetti antiepilettici, medicinali che presentano diversi effetti collaterali e che spesso vanno assunti per tutta la vita. Solo per alcune forme di epilessia, e nel caso in cui il trattamento farmacologico sia risultato inefficace, è possibile ricorrere alla chirurgia. Gli interventi coinvolgono solitamente l’ippocampo o il corpo calloso (la porzione di cervello che collega i due emisferi), e hanno una buona efficacia nel ridurre o eliminare completamente le crisi epilettiche.

Nuove terapie.
Un’altra possibilità è rappresentata dalla neurostimolazione, cioè la sollecitazione del cervello con piccole scariche cerebrali che ha dimostrato di poter ridurre notevolmente la frequenza delle crisi. La forma più comune è probabilmente la stimolazione del nervo vago, che prevede l’impianto di un dispositivo nella zona del petto, collegato con dei fili fino al collo dove raggiunge il nervo vago grazie a cui trasmette la corrente al sistema nervoso centrale. Un’altra terapia che sembra mostrare risultati promettenti è la cosiddetta dieta chetogenica. Utilizzata nei casi di diagnosi infantili, una dieta ad alto contenuto di grassi e povera di carboidrati sembra infatti aiutare a contenere il numero di crisi epilettiche, e in alcuni casi gli effetti sembrano continuare anche una volta ripresa un’alimentazione normale.

Per quanto riguarda il futuro, al momento sono in fase di studio due strategie innovative: la stimolazione cerebrale profonda, ovvero l’impianto di elettrodi in specifiche aree del cervello per somministrare impulsi elettrici controllati che dovrebbero ridurre le crisi; e l’utilizzo di dispositivi definiti close-loop, simili a pacemaker cerebrali e in grado di monitorare l’attività elettrica del cervello e anticipare una scarica anomala somministrando una corrente elettrica.

Via: Wired.it

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