Cosa sappiamo davvero sulle smart drugs

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(Foto via Pixabay)

Il loro nome ufficiale è nootropi – da nous, cioè intelletto, e tropein, cambiare. Ma sono più conosciuti come smart drug, ovvero farmaci intelligenti. Il loro scopo dovrebbe essere quello di aumentare (o, più genericamente, alterare) le capacità cognitive di chi li assume, potenziando il rilascio di agenti neurochimici, migliorando l’apporto di ossigeno al cervello e stimolando la crescita nervosa. Come avviene per le sostanze dopanti in ambito sportivo, naturalmente, le smart drug fanno gola a moltissimi. Un desiderio difficilmente biasimabile: l’idea che ingerendo una pillolina si possa superare più facilmente un esame, o diventare imbattibili a scacchi, o mandare a memoria in quattro e quattr’otto l’intero elenco telefonico è molto più attraente rispetto a quella di sgobbare per ore su libri e manuali. Ma se per alcune di queste sostanze la scienza ha effettivamente certificato una certa efficacia – almeno limitatamente a particolari aspetti, come memoria e attenzione, e per periodi limitati di tempo –, per altre, invece, le evidenze finora raccolte dicono ben altro: nessun effetto benefico, o addirittura effetti collaterali gravi.

E purtroppo, come ha fatto notare di recente Scientific American, la maggior parte di queste sostanze non è sottoposta allo stringente iter regolatorio che devono seguire i farmaci (proprio perché la maggior parte, tecnicamente, non sono farmaci): è sufficiente che i produttori dimostrino che questi non causano direttamente malattie o altri problemi, senza dover specificare alcunché sulla loro efficacia.

Smart di nome e di fatto
Con i termini smart drug si indicano in realtà moltissimi tipi di prodotti, tra cui medicinali veri e propri, estratti vegetali, integratori alimentari e altri intrugli più o meno artigianali. Come ha recentemente specificato l’Istituto superiore di sanità in un ampio report, nonostante il crescente interesse dell’opinione pubblica sul fenomeno, persiste ancora una grande confusione sul tema, legata soprattutto alla terminologia utilizzata: “Si parla infatti”, dice il rapporto, “contestualmente di droghe vegetali, droghe etniche, droghe endobotaniche, droghe naturali, biodroghe […] Per taluni, il termine smart drug indica una serie di bevande energetiche o pastiglie stimolanti (che tentano di simulare l’effetto dell’ecstasy) che assicurano effetti eccitanti pur rimanendo nella legalità (caffeina, ginseng): vengono proposte e consumate soprattutto in ambienti giovanili (discoteche, rave party etc.). Per altri, le smart drug si confondono molto più con droghe naturali o droghe etniche, confinando il loro consumo ad altri ambienti. In realtà, sembrerebbe che l’espressione prenda origine dal fatto che le smart drug sono le droghe furbe perché non perseguite o perseguibili dalla legge, in quanto non presenti come tali o come principi attivi in esse contenute nelle tabelle legislative delle corrispondenti leggi che proibiscono l’uso di sostanze stupefacenti e psicotrope”. Niente di più e niente di meno di quello che accade nella commedia Smetto quando voglio di Sydney Sibilia.

Quali sono e come funzionano
In generale, le sostanze nootrope agiscono sui neurotrasmettitori – principalmente su acetilcolina, dopamina, norepinefrina e serotonina – modificandone livelli e concentrazioni nel cervello, il che altera capacità di concentrazione, abilità di calcolo, memoria, creatività e umore. Vista la vastità del prontuario, non è semplicissimo classificare le smart drug: alcuni ricercatori le suddividono in base alla modalità di consumo (fondamentalmente in funzione del fatto di essere pronte o meno all’uso), altri in base alle classi chimico-fisiche di appartenenza (prodotti caffeinici, prodotti efedrinici, afrodisiaci, ecodroghe etc.), altri ancora in base allo scopo d’uso (curiosità, miglioramento delle prestazioni, ricerca di effetti psicoattivi, “uso universitario”).

I principi attivi più diffusi, comunque, sono i cosiddetti colinergici, tra cui colina, piracetam, aniracetam e vitamina B5, che agiscono sull’acetilcolina, neurotrasmettitore coinvolto nella memoria, nella concentrazione, nel pensiero astratto, nel calcolo e nella creatività; i dopaminergici, tra cui alcuni farmaci usati per trattare il Parkinson, che agiscono sulla dopamina; i serotoninergici, che agiscono sulla serotonina. E ancora: il metilfenidato (noto con il nome commerciale di Ritalin, un medicinale usato nella cura della sindrome da deficit di attenzione e iperattività, o Adhd), la caffeina, la nicotina, la norvalina, sostanze che modificano agilità mentale, concentrazione, resistenza e attenzione.

Effetti collaterali
Come si diceva all’inizio, alcune di queste sostanze – reperibili molto facilmente online e nei cosiddetti smart shop – possono avere imprevedibili effetti collaterali sul sistema nervoso centrale. Imprevedibili perché, al momento, la comunità scientifica non ha ancora raccolto abbastanza evidenze scientifiche: l’impressione generale è, comunque, che ai benefici immediati seguano degli effetti indesiderati più gravi nel lungo termine.

Uno studio del 2014, per esempio, ha mostrato che i miglioramenti nelle prestazioni cognitive assicurati da alcuni nootropi (in particolare modafinil e metilfenidato) si pagano cari in termini di plasticità cerebrale: “Gli individui sani [che fanno uso di queste sostanze, nda] corrono i rischio di spingersi oltre i livelli ottimali di neurotrasmettitori, inficiando così le prestazioni che cercano di migliorare”: sostanzialmente, l’uso (e l’abuso) di smart drug – o almeno di alcune di esse – sembra associato a una riduzione di plasticità del cervello, che a lungo termine potrebbe portare a perdere tutti i miglioramenti acquisiti o a tornare addirittura indietro rispetto al punto di partenza.

Via: Wired.it

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