Come funziona la fecondazione assistita con tre genitori

Abrahim è il nome del bambino che – volente o nolente – passerà alla storia come il primo essere umano con tre genitori biologici: una mamma, un papà e una donatrice di mitocondri, gli organelli cellulari definiti come le centrali energetiche delle cellule. A un anno dalla nascita, l’équipe di ricercatori che ha permesso l’evento pubblica sulle pagine della rivista Reproductive Biomedicine i dettagli delle tecniche utilizzate per trasferire il nucleo dell’ovocita materno in quello della donatrice. Ma ulteriori particolari sulla salute del bambino potrebbero venire a mancare: i genitori hanno negato il consenso a ulteriori esami se non strettamente legati a motivi medici.

La tecnica della fecondazione a tre è una nuova frontiera per la prevenzione di alcune malattie, talvolta molto gravi, trasmesse dal dna dei mitocondri. Il patrimonio genetico di ciascuno di noi, infatti, deriva per circa la metà da quello di nostro padre e per l’altra metà da quello di nostra madre.

C’è però una piccola porzione di dna che ereditiamo solo per via materna, e che non si trova nel nucleo delle nostre cellule ma in quelle strutture – i mitocondri – che forniscono l’energia che la cellula usa per la sua sopravvivenza. Se la mamma è portatrice di mutazioni sul dna mitocondriale, queste alterazioni saranno ereditate dai figli, che potrebbero sviluppare malattie anche molto gravi. Come la sindrome di Leigh, di cui la mamma di Abrahim è portatrice, una patologia che impedisce il corretto sviluppo neurologico: molto invalidante, conduce alla morte precoce di questi bambini.

La soluzione ipotizzata dagli scienziati è quella di sostituire i mitocondri malati con quelli di una donatrice sana. L’idea sembra semplice, ma in queste cose non c’è nulla che si possa prendere alla leggera. E da quando un anno fa l’equipe medica di John Zhang, del centro per la fertilità New Hope di New York, ha dato l’annuncio della nascita di Abrahim la discussione ha raggiunto livelli davvero alti. Anche perché i particolari sul metodo utilizzato non sono stati subito resi noti: si sapeva che la tecnica era una variante di quella approvata a oggi solo nel Regno Unito e che prevedeva il trasferimento del nucleo dell’ovocita materno dentro l’ovocita – svuotato del proprio nucleo ma con mitocondri sani – di una donatrice.

Zhang ha appena pubblicato ulteriori dettagli sulla tecnica, che hanno permesso di far luce sulle modalità utilizzate dal team di ricercatori per realizzare l’embrione.

Al di là delle questioni molto tecniche che i professionisti del settore stanno passando al vaglio, rimangono ancora delle domande sulla salute del primo bambino con tre genitori. Durante il trasferimento del nucleo della madre, infatti, un po’ di dna mitocondriale mutato è stato trasportato nell’ovulo della donatrice: secondo gli esperti si tratta di una percentuale davvero minima, che in teoria non dovrebbe portare conseguenze al nuovo nato. Ma queste sono ipotesi: la realtà è che non si hanno dati per fare previsioni a lungo termine.

Questi dati sarebbero dovuti venire dal monitoraggio delle condizioni di Abrahim, che al momento, dicono i ricercatori, sta bene e non mostra segni di malattia. Tuttavia, dai pochi esami disponibili sembra che la percentuale di dna mitocondriale materno (e quindi mutato) sia differente da tessuto a tessuto: per esempio nelle urine del bambino si troverebbe solo il 2% di dna mitocondriale materno, ma le analisi di altre cellule (in particolare delle cellule del prepuzio asportato al bambino) hanno rivelato una percentuale pari al 9%.

Quindi, altri esami? I genitori di Abrahim si sono rifiutati. Nonostante avessero firmato il consenso informato – e che quindi si presume conoscessero, oltre ai possibili benefici, anche i rischi connessi all’utilizzo di una tecnica di procreazione assistita sperimentale – hanno negato il consenso a ulteriori indagini mitocondriali sul figlio, a meno di evidenti ragioni mediche.

I chiarimenti sui protocolli di richiesta di consenso, rivolti da Nature alla clinica New Hope, tardano ad arrivare. Quello che non manca, però, sono le dichiarazioni di intento future di Zhang e del suo gruppo, che affermano di voler continuare a testare la tecnica, per appurare anche se il trasferimento di un nuclo di ovocita di donne in età avanzata (42-47 anni) in un ovocita più giovane possa costituire un vantaggio per lo sviluppo di una gravidanza normale.

Via: Wired.it

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here