Bella di giorno, super-resistente alle radiazioni

bella giorno
Convolvulus arvensis (Credit: H.Zell via Wikipedia)
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Convolvulus arvensis (Credit: H.Zell via Wikipedia)

La panspermia è una delle più affascinanti teorie sull’evoluzione della vita nell’Universo. Senza stabilire come e dove abbia avuto origine, secondo questa teoria, la vita agirebbe come un’epidemia, “contagiando” pianeti e sistemi solari, trasportata nello spazio a bordo di meteoriti, comete e – in tempi più recenti – navicelle spaziali.

Gli astrobiologi che lavorano alla teoria della panspermia concordano sul fatto che più che temperatura e la pressione estrema, ciò che mette a dura prova la sopravvivenza nello spazio interstellare sono le radiazioni. I raggi ultravioletti, che quando siamo sulla terra sono per buona parte filtrati dall’atmosfera, hanno la capacità di danneggiare il DNA e rendere impossibile l’esistenza di qualunque forma di vita. Per esempio, le spore del batterio Bacillus subtilis non sopravvivono molto a lungo nello spazio aperto, ma possono resistere fino a sei anni se sono protette dai raggi UV da uno strato di polveri di meteorite.

In un esperimento iniziato dieci anni fa e pubblicato questo mese su Astrobiology, i ricercatori hanno testato se i semi delle piante, meglio dei batteri, siano capaci di sopravvivere alle condizioni dello Spazio. I semi sono per natura resistenti alle temperature estreme, al vuoto e all’essicazione. Cosa c’è di più adatto di un seme a trasportare e proteggere la vita?

Per quasi due anni, semi di tabacco e di Arabidopsis thaliana – la pianta modello della biologia vegetale – sono stati lasciati all’esterno della Stazione Spaziale Internazionale, esposti alle radiazioni cosmiche ionizzanti e, soprattutto, ai raggi UV. Una volta tornati a terra, i ricercatori hanno provato a farli germogliare: sul totale di 2000 semi, circa il 20% era sopravvissuto. Sembra poco, ma è un risultato sorprendente se si pensa che la stessa dose di radiazioni sarebbe letale per la maggior parte degli esseri viventi.

Con una missione successiva, chiamata EXPOSE-R, insieme ai semi sono stati mandati sulla ISS anche virus, batteri e uova di crostacei. In questo caso, le dosi di radiazioni sono state molto più elevate e si sono rivelate letali per tutti gli organismi tranne che per le piante. In questo caso solo l’1% dei semi è riuscito a sopravvivere.

Per questioni di spazio, gli esperimenti sulla Stazione Spaziale sono limitati a semi di piccole dimensioni. I semi di bella di giorno (Convolvulus arvensis) sono molto più grandi di quelli di Arabidopsis, e possono rimanere vitali nel terreno per più di 50 anni. Non potendo mandarli sulla Stazione spaziale, ricercatori in laboratorio hanno esposto i semi a una dose di radiazioni circa 6 milioni di volte più intensa di quella che viene normalmente usata per sterilizzare l’acqua. I semi di bella di giorno, a differenza di quelli delle altre piante testate, sono rimasti perfettamente vitali nonostante il trattamento estremo.

La resistenza dei semi di bella di giorno potrebbe in parte essere dovuta alle loro dimensioni. All’interno dei semi, le cellule si trovano in uno stato di dormienza, in cui tutte le funzioni vitali sono bloccate, incluse quelle che servono a riparare i danni provocati dai raggi UV. Quando i semi assorbono acqua e sono pronti a germogliare, nelle cellule iniziano velocemente i lavori di riparazione del DNA e delle altre strutture danneggiate. Semi più grandi contengono una maggior quantità di sostanze nutritive, e aiutano le piante a riprendere la crescita dopo un lungo periodo di dormienza.

I semi di bella di giorno sono anche ricoperti da un involucro molto resistente. Questo, oltre a proteggere i semi dai danni meccanici, è ricco di flavonoidi. I flavonoidi sono pigmenti presenti in molte piante che, tra le altre cose, funzionano come protezione solare e assorbono raggi UV. Già durante l’esperimento EXPOSE-R i ricercatori avevano notato che tra tutti i semi testati quelli meno resistenti alle condizioni dello spazio erano quelli di una particolare varietà di Arabidopsis, che avevano una mutazione in un gene che serve proprio a produrre flavonoidi.

Mettendo insieme questi risultati sembrerebbe che, per sopravvivere a un viaggio interplanetario, serva sia la capacità di riparare in modo veloce e efficace i danni che gli UV inevitabilmente provocano alle cellule, sia quella di ridurre al minimo l’impatto dei raggi UV stessi, usando sostanze che funzionano come delle creme solari. Di per sé, la bella di giorno non è una pianta interessante dal punto di vista agricolo. Scoprire i segreti della sua resistenza potrebbe però aiutarci a decidere quali specie spedire nelle future missioni su Marte, un pianeta che a causa delle alte dosi di raggi UV che penetrano attraverso la sua sottilissima atmosfera è ancora considerato inabitabile.

Riferimenti: Astrobiology

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