Così l’evoluzione lavora ancora oggi sulla nostra specie

dna epigenetica

Le forze che guidano l’evoluzione continuano ad agire sulla nostra specie, eliminando quelle variabili genetiche che portano caratteri negativi e che dunque influenzano la sopravvivenza degli individui. È questa la conclusione a cui sono arrivati i ricercatori della Columbia University dopo avere comparato circa 210mila genomi di americani di origine europea e di inglesi. Una considerazione che potrà apparire scontata se la lasciamo sul piano teorico, ma davvero interessante se si considera che il team statunitense è stato in grado di descrivere il fenomeno a livello sperimentale, osservando la frequenza di mutazioni dannose, come quella che predispone all’Alzheimer, nel corso di poche generazioni.

Confrontando migliaia di genomi, i ricercatori della Columbia hanno osservato come la presenza di mutazioni che predispongono allo sviluppo di Alzheimer, dipendenza dal fumo, asma, alti livelli di colesterolo cattivo e obesità sia inferiore in chi vive più a lungo.

Da questo potrebbe dipendere la diminuzione della frequenza dei tratti che influenzano negativamente la sopravvivenza degli individui cali nell’arco di poche generazioni.

Secondo le leggi della selezione naturale, infatti, le persone longeve hanno maggiori possibilità di trasmettere il proprio patrimonio genetico: possono avere più figli oppure riescono a garantire alla prole maggiori chance di sopravvivenza. Pensiamo per esempio all’ambiente in cui viviamo oggi: una giovane coppia che possa contare sul sostegno dei propri genitori sarà più predisposta a fare figli – e quindi a tramandare il proprio dna.

Avvalendosi delle nuove tecnologie genomiche, lo studio statunitense, pubblicato su Plos Biology, ha permesso in sostanza di vedere il processo di selezione naturale in azione in generazioni di esseri umani moderni.

I ricercatori hanno analizzato i genomi di 60mila persone di origine europea contenuti nella banca dati di Kaiser Permanente in California, e quelli di 150mila inglesi custoditi nella UK Biobank. Dall’indagine è emerso che nelle donne con più di 70 anni la frequenza di mutazioni nel gene ApoE3 connesse all’Alzheimer è più bassa rispetto alla frequenza media della popolazione, osservazione che concorda con i risultati di altri studi che attestano che chi possiede una o due copie del gene ApoE3 mutato vive meno in genere. Constatazione simile è stata fatta negli uomini: la frequenza di mutazioni nel gene CHRNA3 associate all’abitudine al fumo cala nella popolazione maschile che abbia superato la mezza età.

Oltre a questi due risultati di spicco, i biologi hanno preso in considerazione altri 42 tratti comuni associati a una minore durata della vita delle persone (dall’altezza all’indice di massa corporea, ai livelli di colesterolo cattivo nel sangue) e hanno constatato che le alterazioni genetiche connesse sono meno frequenti nelle persone longeve e nella loro progenie.

Non finisce qui. Sembra infatti che anche una pubertà tardiva e l’età più avanzata della prima gravidanza per le donne siano fattori associati a una maggiore sopravvivenza. In base a questo studio, per esempio, un solo anno di differenza nell’inizio della pubertà abbassa il tasso di mortalità del 3-4% sia negli uomini che nelle donne.

Attenzione però a fare considerazioni generali, avvisano i ricercatori: la positività o negatività di certi caratteri è spesso un’attribuzione che tendiamo a fare in base all’ambiente in cui viviamo. L’ambiente ci condiziona, condiziona il nostro stile di vita, ma è mutevole. E quelle caratteristiche che consideriamo desiderabili oggi come oggi potrebbero non esserlo più nell’arco di poche generazioni, o addirittura essere sfavorevoli in popolazioni moderne in contesti differenti dal nostro.

Via: Wired.it

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