La paura degli esseri umani mette in crisi i narvali

narvali
(Credit:Dr. Kristin Laidre, Polar Science Center, UW NOAA/OAR/OER)
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(Credit:Dr. Kristin Laidre, Polar Science Center, UW NOAA/OAR/OER)

Somigliano ai beluga, ma hanno un curioso corso che li distingue, nei maschi: un dente che ricorda quello del leggendario unicorno, lungo tra i due metri e mezzo e i tre metri. Una specie, quella dei narvali (Monodon monoceros), che vive principalmente nel Mare Artico, lontana dalla terraferma e dagli esseri umani. Eppure, la diminuzione del ghiaccio in queste acque negli ultimi tempi ha reso la regione più accessibile e viene ora utilizzata per trasporti, esplorazioni petrolifere e altre attività umane. Non senza conseguenze per i cetacei, come mostra uno studio pubblicato su Science.

Durante la ricerca, un gruppo di nove narvali, su cui erano stati installati sensori per misurare l’attività cardiaca e il movimento, sono stati rilasciati in mare dopo essere stati catturati con delle reti. Gli scienziati hanno osservato che, mentre gli animali nuotavano più velocemente possibile per scappare dal pericolo, il loro ritmo cardiaco scendeva a livelli molto bassi, fino a raggiungere i 3-4 battiti al minuto. Un ritmo cardiaco normale per un narvalo, in superficie, si aggira attorno ai 60 battiti al minuto, e scende intorno ai 10-20 durante le immersioni in profondità. Un fatto estremamente strano, quasi paradossale, visto che il battito cardiaco tende solitamente ad aumentare quando gli animali si muovono più velocemente o scendono in profondità. La reazione mostrata dai narvali, spiegano i ricercatori, mescola quella tipica di combattimento e fuga con una simile alla freeze reaction: una sorta di immobilizzazione, adottata da alcuni animali come strategia alternativa per fuggire ai pericoli.

Ma questa strana combinazione, in cui si mescolano esercizio fisico intenso e basso ritmo cardiaco senza respirare, e risposte fisiologiche e comportamentali allo stress, sarebbe dannosa per questi animali, che potrebbero non riuscire a ossigenare abbastanza il cervello e gli altri organi, spiegano gli scienziati. “Come fai a scappare da un pericolo mentre trattieni il fiato?” ha commentato Terrie Williams, che ha condotto la ricerca, “Questi sono mammiferi marini abituati a nuotare in profondità, ma quella osservata durante la loro fuga non è un’attività normale. È naturale chiedersi come fanno i narvali a proteggere i loro cervelli e mantenere l’ossigenazione in queste situazioni”. Il team ha calcolato che l’attività fisica necessaria per i narvali per scappare dal pericolo richiedeva il 97% delle riserve di ossigeno dell’animale; nuotare normalmente per lo stesso intervallo di tempo e a profondità simili solitamente utilizza solo il 52% delle riserve di ossigeno.  Di fatto, una risposta al pericolo tale, causa una deplezione delle riserve di ossigeno.

Secondo Williams, lo stesso fenomeno potrebbe verificarsi anche in alcuni tipi di balene, quando disturbate dai rumori generati dagli esseri umani negli oceani, una reazione che è stata spesso associata agli spiaggiamenti di cetacei come gli ziphiidae.

I narvali tendono a tornare a un comportamento normale e a un ritmo cardiaco abituale gradualmente dopo essere stati rilasciati. Ma, secondo i ricercatori, lo stress causato dall’interferenza umana nel loro habitat naturale potrebbe causare dei cambiamenti comportamentali non adatti alle loro capacità fisiologiche. I narvali infatti, in situazioni di pericolo, come ad esempio per evitare le orche, solitamente si muovono lentamente per scendere a grandi profondità, o spostarsi in aree costali dove l’acqua è più bassa e coperta da uno strato di ghiaccio. Non sono animali veloci. Ma “diversamente dagli altri pericoli che questi animali solitamente affrontano, come appunto quello rappresentato dalle orche assassine, è difficile sfuggire da rumori come quelli di un sonar o di una esplosione,” ha concluso Williams, “I risultati di questo studio mostrano come la biologia di questi animali li rende particolarmente vulnerabili all’interferenza umana”.

Riferimenti: Science

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