Come era fatto un occhio 500 milioni di anni fa?

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Occhio destro del fossile Schmidtiellus reetae (Credit: Gennadi Baranov)

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Occhio destro del fossile Schmidtiellus reetae (Credit: Gennadi Baranov)

Un fossile, ritrovato in Estonia e risalente a 530 milioni di anni fa, potrebbe contenere il più antico occhio mai scoperto fino ad ora. Secondo lo studio, pubblicato su PNAS, si tratterebbe dei resti di un trilobita, Schmidtiellus reetae, un animale marino oramai estinto, in cui si sarebbe preservata una versione primitiva degli occhi posseduti oggi da molti animali, tra cui granchi, api e libellule.

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Il fossile Schmidtiellus reetae (Credit: Gennadi Baranov)

I trilobiti, antenati di granchi e ragni, sono artropodi dell’ambiente marino vissuti in acque costiere durante l’era paleozoica, tra i 540 e i 250 milioni di anni fa. Durante l’analisi del fossile, i ricercatori hanno osservato che l’animale possedeva una forma primitiva di occhio composto, un organo composto da una matrice di cellule della vista chiamate ommatidia (ommatidium, al singolare), simili a quelle possedute dalle api moderne. Diversamente dagli occhi moderni, tuttavia, in questo esemplare gli ommatidia sono collocati più lontani gli uni dagli altri; inoltre l’occhio del fossile non possiede una lente, probabilmente, sostengono gli scienziati, perché queste specie primitive non possedevano ancora le parti necessarie a formarla.

Grazie alla particolare condizione del fossile, gli scienziati sono inoltre stati in grado di analizzare dettagli della struttura e funzione dell’occhio del trilobita, suggerendo che l’esemplare, pur avendo una vista peggiore di quella di molti animali moderni,  era tuttavia in grado di identificare predatori o ostacoli.

“Questo straordinario fossile ci mostra come i primi animali osservavano il mondo attorno a loro milioni di anni fa,” ha commentato Euan Clarkson, che ha condotto la ricerca,” Sorprendentemente, ci rivela anche quanto poco la struttura e la funzione dell’occhio composto siano cambiate in mezzo miliardo di anni”.

Riferimenti: PNAS

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