A che punto siamo con le terapie contro l’hiv?

Hiv

L’obiettivo è ambizioso, ma i risultati raggiunti negli ultimi anni sono incoraggianti, e lasciano sperare che si possa davvero porre fine all’epidemia di hiv nel 2030. Ci scommette Unaids, il programma della Nazioni unite per la lotta all’Aids e l’hiv, snocciolando i progressi fatti in materia di accesso alle terapie negli ultimi 17 anni: erano 685mila per persone in terapia antiretrovirale nel 2000, sono quasi 21 milioni oggi. Ma il contatore sulle nuove infezioni è lungi dall’essersi arrestato, lo stigma dall’essere vinto e il diritto alla salute dall’essere garantito. Senza tutto questo, quell’obiettivo è impossibile. Per questo il tema scelto per la campagna di quest’anno dalle Nazioni Unite è quello del diritto alla salute (#myrighttohealth), cui fanno eco quello delle varie associazioni impegnate nella lotta all’Aids e all’hiv. Anlaids in Italia ha lanciato la campagna “Se te ne fotti, l’Aids ti fotte” e la Lila, Lega italiana perla lotta contro l’Aids, che quest’anno festeggia i trenta anni di attività, ha lanciato “Spingiamo sull’acceleratore per fermare l’Aids”, abbinata alla campagna di raccolta fondi raccolta fondi attiva fino a 2 dicembre (numero solidale 45517).

Perché c’è molto che possiamo fare. A cominciare dalle terapie, purché il sommerso, il bacino che continua ad alimentare i casi di hiv, emerga. Perché strumenti e strategie contro il virus esistono e continuano a ruotare ancora intorno ai pilastri di sistemi di prevenzione e terapia. Che a volte si combinano, quando la terapia è prevenzione. In occasione della giornata mondiale contro l’Aids abbiamo provato a fare un punto in materia di strategie di lotta contro l’hiv. In un’ottica che non può prescindere dalla prevenzione e dal test.

Test
La Lila stima che in Italia almeno una persona con hiv su quattro non sia consapevole del proprio stato. E le strategie da mettere in atto contro l’hiv devono tenerne conto, perché il piano d’azione per le persone con hiv che sanno di esserlo e per chi non sa di esserlo deve essere diverso, racconta a Wired.it Adriano Lazzarin, a capo della divisione di malattie infettive all’ospedale San Raffaele di Milano. Per tutti la prevenzione passa dall’utilizzo del preservativo, non solo come presidio contro l’hiv ma per tutte le malattie sessualmente trasmesse, ma per chi non conosce il proprio stato la strategia passa necessariamente dal test. “Per quel 25% delle persone che non sanno di essere portatrici del virus la via è fare il test, ma ancora oggi l’accesso è uno degli scogli principali nella lotta all’hiv e non si intercettano abbastanza casi”.

Anche dopo l’arrivo, lo scorso anno, del test fai te disponibile in farmacia. “È necessario pensare a dei piani di intervento perché la cultura del test diventi sempre più capillare, ma al tempo stesso serve andare a cercare i nuovi casi, con presenze all’interno delle popolazioni a rischio, quali possono essere le comunità dei transgender e le carceri”, va avanti Lazzarin, “Serve uscire dagli ospedali, rendere il test sempre più friendly, e casi in cui dove sono stati aperti dei check point suggeriscono che lì il test sia più sensibile. Modelli di strutture così esistono a Bologna e a breve anche a Milano dovrebbe esserne allestito uno”.

And treat: la terapia (anche) come prevenzione
Dal test passa la possibilità di trattamento. Perché oltre alla prevenzione con preservativo, il binomio test and treat è l’unico che può aiutare a esaurire il serbatoio dell’epidemia da hiv, spiega Lazzarin. L’unico che può aiutare ad arginare il pool di trasmettitori che incide maggiormente sul mantenimento delle infezioni. Questo perché le terapie a oggi disponibili non solo permettono di immaginare per le persone con hivun’aspettativa di vita paragonabile a quella dei coetanei sani, ma perché come pare emergere da qualche anno la terapia è prevenzione. “Si parla di Tasp, Treatment as Prevention, un concetto derivante dall’uso delle terapie antiretrovirali che permettono di ridurre notevolmente il rischio di trasmissione dell’infezione, perché la cura abbassa la viremia nei soggetti positivi al virus al punto che il virus non può trasmettersi”, continua Larrazin, “un risultato che abbiamo osservato emergere dopo circa un anno di trattamento con terapie antiretrovirali per la gran parte delle persone con hiv ben curate”. Oggi, ha ricordato Lazzarin, la “Tasp in Italia è già una realtà per quasi il 90% delle
persone con hiv in terapia”.

Solo lo scorso anno, su Jama, alcuni ricercatori riportavano i risultati di follow up sul rischio trasmissione del virus in coppie sierodiscordanti (in cui un partner è positivo al virus e l’altro no) senza utilizzo del condom. In coppie eterosessuali e Msm (maschi che hanno rapporti sessuali con maschi) nel corso di un periodo di oltre un anno non si erano avuti casi di trasmissione del virus all’interno della coppia. Pur concludendo che per avere stime precise del rischio fossero necessari follow up più lunghi, i risultati confermano i dati anticipati già nel 2011. Test and treat, in questi termini, funziona anche sul fronte della prevenzione.

Prep e Pep: e le pillole per la prevenzione?
La terapia come prevenzione per la trasmissione del virus. Ma gli antiretrovirali possono funzionare anche come profilassi per chi non ha contratto il virus. Una scoperta concretizzatasi, dopo gli studi di efficacia anche nel mondo reale, con l’approvazioneda parte dell’Agenzia europea del farmaco della pillola (la combinazione di antiretrovirali emtricitabina e tenofovir) anche per uso preventivo nel 2016. Ma l’uso del farmaco come profilassi pre-esposizione (Prep, Pre-Exposure Prophylaxis) vive oggi in una zona grigia in Italia.

“Non per mancanza di evidenze scientifiche, le quali ci dicono che la pillola funziona con elevatissima efficacia, anche in setting on demand, ovvero in previsione di comportamenti a rischio, quanto piuttosto per mancanza di una regolamentazione relativa alla rimborsabilità del farmaco”, spiega a Wired.it Massimo Andreoni, ordinario di malattie infettive presso il Policlinico di Tor Vergata di Roma. “La prescrivibilità del farmaco c’è e di fatto prescriverlo è tecnicamente possibile, da parte solo di un medico specialista infettivologo e con qualche limitazione che spinge chi ne vorrebbe far uso a cercare di ottenerlo per vie meno nitide”.

Le limitazioni, oltre ai costi, riguardano anche la reperibilità dei farmaci: “Quando parliamo di antiretrovirali parliamo di una distribuzione affidata alle farmacie ospedaliere o alle farmacie territoriali con convenzione con gli ospedali e a fronte della richiesta spesso le farmacie devono fare richiesta per ottenere il farmaco”, conferma a Wired.it Giusi Giupponi presidente Lila Como e parte del coordinamento nazionale.

Quel che resta da fare è stabilire bene chi, come e quando può avere accesso al farmaco. Generici in arrivo inclusi, come ha raccontato Giulio Maria Corbelli, vice presidente di Plus onlus, organizzazione di persone Lgbt sieropositive. “Per questo, proprio in questo periodo”, riprende Andreoni, “si sta discutendo di un studio, che coinvolga Aifa, l’industria, la società di malattie infettive e le associazioni per definire un modello italiano di disponibilità del farmaco a scopo profilattico, che comprenda valutazione del rischio, popolazione interessata e modalità di gestione, definendo i compiti degli ospedali, dei centri e delle associazioni. Tutto questo in vista di definire l’eventuale rimborsabilità del farmaco”.

In attesa di questo modello di gestione, Andreoni ribadisce che le popolazioni potenzialmente eleggibili per ricevere la Preppotrebbero essere utenti molto diversi tra loro: etero e omosessuali promiscui, partner di coppie sierodiscordanti (in cui solo uno dei partener è hiv positivo) in cui la persona con hiv non riesce ad abbassare la viremia o che progettino di avere un figlio. “Tutte le fasi di valutazioni dovranno tener conto di diversi tipi di rischio – riprende Andreoni – da una parte si dovrà rispondere alla domanda ‘chi è sufficientemente a rischio per prendere la Prep‘, dall’altra sono necessarie sempre valutazioni di rischi diversi, da quelli degli effetti collateralidell’assunzione di un farmaco ai rischi connessi al sesso non protetto al di fuori del rischio hiv”.

Questioni che chiamano in ballo anche interrogativi etici. Da una parte c’è infatti che la liberalizzazione della Prep rischi di presentarsi come un passo indietro nel campo della prevenzione. C’è il rischio che la sua diffusione costituisca una sorta di avvallo alla persona che sta facendo qualcosa di sbagliato, ovvero rinunciare a forme di protezione più efficaci. Dall’altra gli oltre tremila casi l’anno dimostrano che la prevenzione più efficace – quella dei rapporti protetti – non funziona per tutti.

“In alcuni casi il tentativo di coinvolgere all’uso del preservativoè fallito e il medico non può ignorarlo – va avanti Andreoni –questo non significa che di fronte a un paziente che chiede la Prep non ricorderà come esistano alternative più efficaci, meno costose e meno tossiche, quali appunto il preservativo, ma la logica è sempre quella di muoversi in un’ottica di riduzione del danno e di non ignorare il rischio malattia”. Discorso completamente diverso per la Pep (Post-Exposure Prophylaxis), la profilassi post-esposizione, che viene somministrata come vera e propria terapia in seguito a un’esposizione indesiderata, come quelle accidentali in ambito ospedaliero o come intervento in seguito a episodi di violenza.

I dati in Italia e nel mondo
Oltre tremila. Per la precisione 3.451. Tante sono state le nuove diagnosi di hiv nel 2016 in Italia. Un numero in lieve ribasso rispetto all’anno precedente (quando erano 3.549) e in continua discesa rispetto al 2010. Ma, come accaduto in passato, i numeri raccontano un’altra storia quando si guarda all’Europa. Le nuove diagnosi da hiv nella regione europea dell’Organizzazione mondiale della sanità per l’anno scorso  ammontano a 160.453 (quasi 30mila quelle relative ai paesi dell’Unione europea e dell’area economica europea). L’unica regione a livello globale in cui il numero delle nuove infezioni sta aumentando, tuonanodall’Oms.

A guidare l’impennata soprattutto le zone orientali della regione europea, dove la trasmissione avviene soprattutto per rapporti tra eterosessuali e contaminazioni per siringhe infette da consumo di droghe. Nella regione europea invece la principale modalità di trasmissione è per via sessuale tra gli uomini, e anche in Italia la maggior parte delle nuove diagnosi si hanno in maschi che fanno sesso con maschi e in maschi eterosessuali, spiega l’Istituto superiore di sanità. A livello mondiale si stima siano state 1,8 milioni le nuove diagnosi da hiv nel 2016 (erano intorno a 2,1 milioni nel 2015). Globalmente la situazione rimane stabile: sono 36,7 milioni le persone che convivono con l’hiv nel mondo.

Via: Wired.it

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