Un ambulatorio portatile per diagnosi da remoto

accesso alle cure
(Foto via Pixabay)

Ting prende dalla sua borsa una piccola valigetta nera, la posa sulla scrivania e, quasi come Mary Poppins, tira fuori un vero e proprio mini-ambulatorio portatile: un elettrocardiogramma, misuratori di pressione, battito e saturazione di ossigeno, uno stetoscopio digitale, strumenti per misurare glicemia e lipidi nel sangue e un termometro. Tutto collegato o collegabile via bluetooth con un tablet. La sua valigetta è un kit diagnostico di base per raccogliere i dati di un paziente e inviarli a un medico in qualsiasi parte del globo. Pensato per arrivare lì dove di medici ce ne sono pochi, e dove l’assistenza sanitaria scarseggia. E parliamo di grandi numeri: si stima infatti che siano 2 miliardi le persone nel mondo a cui non è garantito un accesso alle cure, e nonostante i passi avanti compiuti negli ultimi anni – alcuni farmaci sono adesso disponibili più rapidamente in alcuni paesi in via di sviluppo – sono tante le criticità ancora da affrontare.

Se ne è parlato nei giorni scorsi a Basilea, all’interno dell’incontro “Reimagining access: how to make innovation accessible to more people in a sustainable way” organizzato da Novartis , dove esperti del settore hanno discusso di come la cooperazione fra diverse aziende farmaceutiche, tra gli imprenditori locali, l’ottimizzazione delle strategie di distribuzione oltre che di produzione di farmaci e servizi possano combinarsi insieme per potenziare l’accesso alle cure. Contando anche sull’utilizzo dei sistemi digitali, come quello sviluppato da Ting Shih, intervenuta al convegno. Ting, fondatrice e CEO di ClickMedix, un’azienda che permette, attraverso i telefoni cellulari, di comunicare con i medici in remoto e di ottenere diagnosi e cure.

L’accesso alle cure passa dal digitale

Al di là delle varie applicazioni usate per monitorare la nostra salute, utilizzare degli smartphone in medicina è un’idea che ha già preso piede in diversi settori. E non stiamo parlando solo dell’abitudine di mandar foto ai propri medici per avere un primo parere, in attesa della visita di persona. C’è chi, per esempio, ha messo a punto un dispositivo per smartphone in grado di analizzare un campione di sperma come test di fertilità, o chi ha sviluppato microscopi portatili che funzionano con la telecamera del telefono per trovare eventuali parassiti nel sangue.e chi ancora prototipi per rivelare la presenza di malattie infettive, come Hiv e sifilide. L’idea di Ting per migliorare l’accesso alle cure nel frattempo però si è già concretizzata in una realtà in diversi paesi, racconta a Galileo, ricordando come è nato tutto.

Un’idea nata nel 2007

Ting era ancora una studentessa all’MIT (Massachusetts Institute of Technology) quando ha avuto l’intuizione: “Era il 2007, e volevo trovare un modo per cui quante più persone potessero avere accesso alle cure, e ho pensato che la strada per farlo potesse passare dal digitale, dal telefono in particolare, più diffuso di quanto siano elettricità e accesso all’acqua a volte”. Anche se non tutti possiedono uno smartphone, continua, l’idea di usare il telefono come dispositivo medico poteva funzionare immaginando di utilizzare quelli degli operatori sanitari e del personale medico che opera in piccole comunità e nei villaggi. Il progetto iniziale di Ting e colleghi oggi ha già raggiunto 500 mila persone ed è diffuso in 20 paesi. In Botswana, per esempio, ClickMedix porta avanti iniziative digitali per il supporto nella diagnosi del tumore alla cervice. Ma il telefono può essere utile anche per fotografare lesioni della pelle e quindi aiutare la diagnosi di malattie dermatologiche, come viene fatto per esempio in Ghana, in Egitto e in Uganda. Nelle Filippine invece è attivo un programma in cui degli studenti infermieri visitano gli anziani nelle loro abitazioni e ne monitorando le loro condizioni e possibili rischi fotografandoli.

Diagnosi da remoto

Il piccolo kit che Ting ci ha mostrato permette di raccogliere e inviare dati in modo molto semplice: le misure registrate dagli operatori locali vengono trasmesse a un’applicazione, con la quale vengono anche descritti i sintomi del paziente. I dati vengono quindi inviati a dei medici in tempo reale. “Se i medici hanno a disposizione dati chiari e la corretta descrizione dei sintomi, possono fare una diagnosi da qualsiasi parte del mondo, non devono necessariamente vedere il paziente. Serve solo una persona che aiuti la compilazione, somministri la terapia e incoraggi il paziente a seguirla”, continua Ting. Nei casi, ovviamente, in cui sia possibile azzardare una diagnosi e prescrivere terapie da remoto, sulla base dei risultati di test e con il supporto di operatori sul campo. “I nostri clienti sono le organizzazioni sanitarie, che beneficiano del nostro sistema perché possono raggiungere molte più persone. I pazienti, a loro volta, hanno tempi di attesa molto ridotti: siamo passati da mesi a meno di 72 ore”, ci spiega Ting. In alcuni casi rimane il problema del costo delle terapie, a complicare il quadro:  “Per questo è davvero importante la collaborazione delle aziende farmaceutiche e la trasparenza dei prezzi nei diversi paesi: per esempio in Colombia un farmaco per la fluidificazione del sangue costa tantissimo e le persone devono andare all’estero per comprarlo”.

Dalla cura alla prevenzione

Se l’accesso alle cure è un percorso ad ostacoli, quando il paziente arriva alla diagnosi e a ricevere un trattamento è probabile che la malattia sia già a un livello avanzato. Tutto questo rischia di aumentare la sofferenza e rendere la terapia più difficile e costosa, rispetto a come sarebbe se si fosse intervenuti tempestivamente: “Uno dei grandissimi vantaggi di questo sistema digitale è che dopo poco tempo gli operatori sanitari del posto imparano a loro volta a diagnosticare i pazienti, ottenendo indipendenza dai medici in remoto e aumento delle capacità”, va avanti Ting, “Inoltre, se i pazienti si rendono conto della semplicità del sistema, è probabile che vi accederanno di più, accorciando il tempo che passa fra l’insorgere di una patologia e la richiesta di aiuto. Un percorso che nel lungo tempo permetterebbe di passare dalla cura alla prevenzione. Oltre a ridurre le sofferenze, questo aiuterebbe a contenere le spese. L’aumento della consapevolezza delle persone, oltre che del personale sanitario, è un passo fondamentale. È per questo che abbiamo iniziato dei progetti anche nelle scuole, dove si cerca di educare alla salute partendo anche da cose banali ma che sono per nulla scontate, come lavarsi le mani”.

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