L'ossessione per i selfie sta cambiando i nostri ricordi

foto selfie
(Foto via Pixabay)

Qualche tempo fa sono stata all’Hermitage di San Pietroburgo, in Russia, uno dei migliori musei d’arte al mondo. Pensavo di godermi serenamente i suoi capolavori, ma la mia visuale è stata impedita da un muro di smartphone che fotografavano i dipinti. E nei pochi spazi lasciati liberi c’erano decine di visitatori che si scattavano selfie per conservare per sempre il ricordo della visita.

Per molte persone, il fatto di scattare centinaia, se non migliaia, di fotografie è diventato parte integrante dell’andare in vacanza: bisogna documentare ogni dettaglio e pubblicarlo sui social media. Ma in che modo tutto questo influisce sui nostri ricordi del passato, e su come ci percepiamo? Siccome sono un’esperta di memoria, ero curiosa di scoprirlo.

Purtroppo la ricerca psicologica sull’argomento è scarsa. Tuttavia, alcune cose le abbiamo capite. Una di queste è che usiamo gli smartphone e le nuove tecnologie come archivi di memoria. Niente di nuovo, naturalmente: gli umani hanno sempre usato dispositivi esterni come supporto quando acquisiscono conoscenze e ricordi.

Scrivere sicuramente ha questa funzione. I registri storici sono una sorta di memoria esterna collettiva. Le testimonianze scritte di migrazioni, invasioni o battaglie aiutano le nazioni a tenere traccia del proprio passato e della propria identità. Nella vita di un individuo, i diari svolgono una funzione simile.

Selfie e memoria

Oggi tendiamo ad affidarci assai poco alla memoria, e consegniamo una gran quantità di dati al cloud. Non solo è ormai quasi impossibile ricordarsi a memoria le poesie, ma in genere anche gli eventi più intimi sono registrati sui nostri cellulari. Piuttosto che ricordare quello che abbiamo mangiato al matrimonio di qualcuno, andiamo a cercare nell’archivio del telefonino tutte le foto di cibo che abbiamo scattato in quell’occasione. Questo ha delle conseguenze gravi. Scattare foto di un evento anziché immergerci in esso genera un ricordo più scarso dell’evento reale: perché mentre lo facciamo ci distraiamo.

Basarsi sulle foto per richiamare alla memoria un determinato fatto ha un effetto simile. Per funzionare bene, la memoria deve essere esercitata con regolarità. Ci sono molti studi che documentano l’importanza dell’allenamento nel recupero della memoria, ad esempio negli studenti universitari. La memoria è e rimarrà essenziale per l’apprendimento. E in effetti alcuni studi dimostrano che affidare al cloud quasi tutte le nostre conoscenze e i nostri ricordi potrebbe ridurre la nostra capacità di ricordare.

Per fortuna, in tutto questo c’è anche un aspetto positivo. Sebbene alcuni studi sostengano che questa delega esterna della nostra memoria ci renda più stupidi, in realtà stiamo solo modificando le nostre competenze, passando dall’essere puramente in grado di ricordare, all’essere capaci di gestire in modo più efficiente il modo in cui ricordiamo. Questo processo si definisce metacognizione ed è un’abilità globale, fondamentale per gli studenti, per esempio, quando devono programmare cosa e come studiare. E sappiamo anche, grazie a studi documentati e affidabili, che le memorie esterne, inclusi i selfie, possono essere d’aiuto alle persone con problemi di memoria.

E tuttavia, anche se le foto possono in alcuni casi aiutare le persone a ricordare, è la qualità dei ricordi che potrebbe essere peggiore. Osservando un’immagine del passato potremmo ricordare un aspetto particolare, ma magari a scapito di altre informazioni. Uno studio ha mostrato che sebbene le foto aiutassero le persone a ricordare quello che vedevano durante un evento, al tempo stesso interferivano negativamente con il ricordo di quanto veniva detto.

L’identità distorta

Quando si tratta di ricordi personali, poi, i rischi che si possono correre sono abbastanza seri. La nostra identità è il risultato delle nostre esperienze di vita, che possono essere facilmente accessibili attraverso i nostri ricordi. Questa continua documentazione fotografica delle nostre esperienze può alterare il modo in cui vediamo noi stessi? Su questo non abbiamo ancora prove empiriche sostanziali, ma dal mio punto di vista è possibile che succeda.

Probabilmente troppe immagini ci fanno ricordare il passato in modo univoco, sbarrando la strada ad altri ricordi. Sebbene spesso accada che i ricordi della prima infanzia si basino sulle foto anziché sugli eventi reali, non sempre si tratta di veri ricordi.

Un altro problema è dato dal fatto che la ricerca ha individuato una mancanza di spontaneità nei selfie e in molte altre foto. Sono immagini pianificate, le pose non sono naturali e a volte l’immagine della persona risulta deformata. I selfie riflettono anche una tendenza narcisistica che modella il viso in espressioni innaturali: grandi sorrisi artificiali, bronci sensuali, facce buffe o gesti offensivi.

È importante sottolineare che i selfie e molte altre foto sono anche manifestazioni pubbliche di attitudini, intenzioni e atteggiamenti specifici. In altre parole, non riflettono realmente chi siamo, riflettono ciò che vogliamo mostrare agli altri su noi stessi in quel momento. Se ci affidiamo quasi esclusivamente alle foto quando ricordiamo il nostro passato, finiamo per creare un’identità distorta basata sull’immagine che volevamo mostrare agli altri.

Detto questo, la nostra memoria naturale in realtà non è precisissima. Spesso creiamo falsi ricordi per mantenere nel tempo l’identità che vogliamo avere, ed evitare narrazioni contrastanti su chi siamo. Per esempio, se siamo individui tendenzialmente gentili, ma per qualche motivo decidiamo di mostrarci più duri, possiamo scavare nel passato alla ricerca di un ricordo che testimoni un nostro atteggiamento aggressivo, o persino inventarlo del tutto.

Il fatto di conservare nello smartphone, e di potervi accedere quotidianamente, centinaia di immagini del nostro passato potrebbe quindi rendere la nostra memoria meno flessibile e meno adattabile ai cambiamenti provocati dalla vita, rendendo la nostra identità più rigida e fissa. Ma se la nostra identità attuale diventa diversa da quella passata, rigidamente incardinata sulle immagini, questo può creare problemi. Si tratta di un’esperienza spiacevole, ed è esattamente quello che il “normale” funzionamento della memoria cerca di evitare: la flessibilità dei ricordi consente di avere una narrativa non contraddittoria su noi stessi. Vogliamo pensare di avere un certo “nucleo” immutabile. Se non riusciamo a modificare il modo in cui ci vediamo nel corso del tempo, questo potrebbe seriamente influire sulla nostra salute mentale. In questo senso l’ossessione di scattare foto potrebbe, da un lato indebolire la nostra capacità di memoria, dall’altro generare sgradevoli discrepanze nella nostra identità.

È interessante osservare come la tecnologia stia cambiando il modo in cui ci comportiamo. Finché siamo a conoscenza dei rischi, probabilmente possiamo mitigare gli effetti dannosi. Quello che però mi terrorizza è l’idea di perdere queste preziose immagini per colpa di qualche comune malfunzionamento dello smartphone.

Quindi, la prossima volta che ci troviamo in un museo, prendiamoci il tempo per guardarci intorno e sperimentare tutto. Nel caso in cui quelle foto dovessero scomparire.

L’articolo è stato pubblicato in inglese su The Conversation. Traduzione a cura della redazione di Galileo.

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