Aids, la maternità possibile

Circa un terzo della popolazione sieropositiva in Italia è composto da donne, di cui il 32 % di età inferiore a 38 anni. È uno dei dati che emerge dall’indagine Posit (Popolazione sieropositiva italiana), realizzata con il supporto scientifico della Fondazione Nadir Onlus, di cui si è discusso in occasione dell’incontro “Donne e Hiv oggi”, a Roma il 7 aprile scorso. Posit è uno studio a carattere socio-epidemiologico, condotto in Italia nel 2007-2008,  nel quale circa 30 infettivologi in tutta Italia hanno raccolto i profili di 1.200 pazienti. Galileo ha chiesto ad Adriana Ammassari, dirigente medico di I livello presso l’Irccs Istituto Nazionale per le Malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani” di Roma, intervenuta all’incontro, di commentarne i risultati.

Dottoressa Ammassari, cosa emerge dallo studio  relativo alla popolazione femminile sieropositiva nel nostro paese?

“Per prima cosa una caratterizzazione demografica della donna: in Italia, come in Spagna e a differenza dell’Inghilterra e di altri paesi nord europei, la maggior parte delle donne sieropositve (86%)  non è immigrata. Inoltre si tratta per lo più di donne eterosessuali, il 54 per cento delle quali ha un compagno stabile. Dallo studio emerge anche che  il 51 per cento delle pazienti ha figli, e che il 14 per cento (27 se si considerano le donne al di sotto dei 38 anni) li desidera fortemente”.

A proposito di Hiv e gravidanza: una donna sieropositiva o con un partner sieropositivo cosa può o deve fare prima di cominciare una gravidanza, per far nascere un bambino sano?

“Innanzitutto la gravidanza va pianificata con il medico: alcuni regimi terapeutici sono controindicati in quanto embriotossici o teratogeni, e vanno quindi modificati. Il medico deve prevedere che una donna al di sotto di una certa età  possa sentire un forte desiderio di diventare madre, e quindi non usare tutte le misure contraccettive necessarie per evitare il concepimento; ad ogni donna sieropositiva in età fertile deve dunque essere prescritta una  terapia compatibile con una possibile gravidanza, come la classe di inibitori della proteasi. Una volta deciso di intraprendere una gravidanza, si agisce in maniera diversa a seconda di chi nella coppia è sieropositivo; in ogni caso la priorità è la salvaguardia del partner sano. Se la donna non è sieropositiva e il partner sì, è consigliata l’inseminazione artificiale, con seme di donatore o dopo la bonifica dall’Hiv del liquido seminale del partner. In caso opposto, quando cioè è la donna ad essere sieropositiva e il partner no, è possibile l’auto-inseminazione per evitare che le mucose vengano a contatto, o l’ inseminazione intrauterina; è ancora controversa l’ipotesi di un concepimento naturale nei giorni di massima fertilità in presenza di una terapia efficace. Infine, nel caso in cui entrambi i partner siano sieropositivi, si procede al concepimento naturale o alla procreazione medicalmente assistita in caso di infertilità. Se la donna è sieropositiva e assume già una terapia antiretrovirale, questa deve essere continuata nel corso di tutta la gravidanza. Se invece la donna non ha ancora necessità di effettuare il trattamento, questo andrà  instaurato durante il secondo trimestre. Queste misure, associate a un monitoraggio intensivo, mirano a ottenere il miglior controllo virale possibile, soprattutto al momento del parto.  La trasmissione materno-fetale avviene durante il travaglio o dopo: bisogna arrivarci con la carica virale abbattuta  e renderlo più sicuro e breve possibile”.

Per quanto riguarda il parto e il periodo successivo alla gravidanza, ci sono accorgimenti particolari?

“A tutt’oggi le nostre linee guida prevedono un parto cesareo, perché abbrevia il contatto del neonato con le mucose infette, e sconsigliano l’allattamento al seno. Infine anche il neonato va sottoposto a una mini terapia anitiretrovirale molto breve. Con queste accortezze, e soprattutto se la madre è già sottoposta a una terapia efficace, il rischio che il bambino nasca sieropositivo è inferiore al tre per cento”.

Dallo studio emerge anche che circa 4-9 donne su 10.000 arrivano alla diagnosi dell’infezione da Hiv direttamente durante la gravidanza o al momento del parto. Come si può intervenire?

“Si può intervenire su tre fronti. In primo luogo andrebbe reso obbligatorio il test in gravidanza: in Italia non lo è e molte persone non sanno che è sempre gratuito. In secondo luogo è necessaria la sensibilizzazione degli specialisti ginecologi e ostetrici: sono loro che, in assenza di obbligatorietà devono dare indicazione di fare il test. Infine è importante sensibilizzare l’opinione pubblica. Le donne devono sapere che è un esame fondamentale per proteggere il bambino: cominciare la terapia al momento opportuno durante la gravidanza permette di arrivare al parto con una carica virale abbattuta, diminuendo la probabilità di trasmissione dell’infezione”.

Quali sono oggi le principali vie di contagio?

“L’Aids oggi è una malattia a trasmissione sessuale, il 48 per cento delle infezioni è diffuso per via eterosessuale, il 23 per via omosessuale. Per quanto riguarda le donne, il 60 per cento di loro ha contratto il virus attraverso un rapporto eterosessuale (il restante 40 per cento a causa di una tossicodipendenza attiva o pregressa). Nel primo caso, l’80 per cento lo ha contratto dal proprio partner stabile (fatto, questo, che può provocare un ritardo nella diagnosi). La donna tende  più facilmente a contrarre il virus da un partner sieropositivo che non viceversa: il contatto tra il liquido spermatico infetto e la mucosa vaginale recettiva avviene tra superfici maggiori e tempi più prolungati, rispetto a quello contatto tra la mucosa del pene e i liquidi vaginali. Durante il rapporto, poi, si possono verificare facilmente microlesioni della mucosa genitale, circostanza aggravata da rapporti non consenzienti all’interno o meno della coppia. Inoltre, anche da un punto di vista psicologico e sociale la donna non sempre ha il coraggio di chiedere l’uso del preservativo o di rifiutare un rapporto”.

Come viene colpita la donna dal punto di vista sociopsicologico? Paura, stigma, senso di colpa…

“Uno dei dati più interessanti dello studio riguarda proprio questo aspetto: il 32 per cento delle donne under 38 riferisce di non ricevere supporto da parenti o amici, e il 59 per cento si sente depressa. Oggi la donna sieropositiva soffre di un isolamento enorme:  non è parte di un gruppo sociale o comportamentale (omosessuali o tossicodipendenti, ndr.) e quindi non ha una comunità di riferimento con cui confrontarsi. Spesso non è a conoscenza di strutture o associazioni dove chiedere informazioni e supporto senza esporsi. Inoltre c’è sempre la paura di un grande stigma sociale, dovuto alle modalità di trasmissione del virus. Ha la sua rilevanza anche il senso di colpa per non essersi saputa proteggere e quindi di avere acquisito l’infezione, che a sua volta comporta timore di discriminazione sociale per i figli e il partner. Invece è importante sapere e diffondere la consapevolezza che ci sono terapie che danno eccellenti risultati portando ad una aspettativa di vita che supera i 30 anni e che garantiscono una buona qualità di vita, tale da poter avere figli e costruirsi una famiglia. D’altra parte l’isolamento, la paura, lo stigma sono i nemici principali delle pazienti. Perché spesso possono portare la paziente a decidere di interrompere la cura, cosa che riferisce di fare ogni tanto una donna su tre”.

Le donne sono anche più colpite dagli effetti collaterali?

“Non si può parlare di effetti collaterali genere specifici. Ci sono effetti collaterali prevedibili che possono essere evitati modificando lo stile di vita o cambiando farmaco. La fortuna, infatti, è che oggi ci sono diverse opzioni terapeutiche. Si parla molto di adattamento della terapia su misura del paziente: un medico e un malato insieme possono capire quale è il farmaco che dà meno problemi, attraverso diversi tentativi. È vero invece che il metabolismo e l’assetto ormonale femminile possono interagire con tutti i farmaci antiretrovirali, a volte accentuando alcuni effetti collaterali. Le donne hanno poi un indice di massa corporea inferiore a quello degli uomini, e i farmaci antiretrovirali non sono prescritti pro chilo ma a dose fissa, con identica posologia per chi pesa 90 chili o 45. Quindi la donna è potenzialmente più esposta a concentrazioni ematiche elevate che possono associarsi ad alcuni effetti collaterali”.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here