Ambiente alla riscossa

Dal Diciannovesimo al Ventunesimo secolo: anche il nostro modo di guardare l’evoluzione è cambiato. Sono passati duecento anni dalla nascita di Charles Robert Darwin. E centocinquanta da quando la teoria della selezione naturale è stata pubblicata su “L’origine delle specie”, la sua opera più conosciuta. Come è cambiato il concetto di evoluzione dal 1859 ai nostri giorni? Ne parliamo con Mary Jane West-Eberhard, biologa evolutiva dello Smithsonian Tropical Research Institute, in occasione del convegno “Il mondo dopo Darwin”, tenutosi ieri e oggi all’Accademia Nazionale dei Lincei, a Roma.

Professoressa West-Eberhard, nel corso di questi centocinquanta anni il concetto di evoluzione si è modificato rispetto a come lo intendeva Darwin?

Come le altre scienze, anche la biologia evolutiva è una disciplina dinamica. Nel Diciannovesimo secolo le ipotesi sull’evoluzione si basavano sulle osservazioni naturalistiche: gli individui con caratteristiche favorevoli alla sopravvivenza in un determinato ambiente hanno più probabilità di riprodursi. Di conseguenza queste caratteristiche, grazie al meccanismo dell’ereditarietà, diventano più comuni nella popolazione. Ma i tratti che considerava Darwin erano solo quelli che si potevano vedere a occhio nudo. In altre parole considerava solo l’aspetto esteriore, detto fenotipo. Il Novecento, invece, è stato il secolo del gene. Con la scoperta del patrimonio genetico, infatti, l’attenzione si sposta verso il Dna, componente invisibile dell’organismo. È allora che la trasmissione dei caratteri acquista solide fondamenta.

Come cambia quindi il modo di vedere l’evoluzione?

Entrano in gioco le mutazioni casuali: i tratti del fenotipo sono la conseguenza di piccole variazioni del Dna di un individuo, ed è con il meccanismo di trasmissione del genoma che vengono poi ereditati di generazione in generazione e si diffondono nella popolazione. Ovviamente se superano la selezione naturale, cioè se in qualche modo conferiscono un piccolo vantaggio agli individui. Così, da un limitato numero di mutazioni, dopo un lungo intervallo di tempo, si può arrivare a un fenotipo totalmente diverso da quello di partenza. Peccato che per concentrarsi sui geni si è perso di vista il quadro generale.

In che senso?

Nel senso che l’ambiente è passato in secondo piano. Ricordo una barzelletta che sentii una ventina di anni fa a un convegno: che differenza c’è tra un biologo evolutivo e uno studioso di ecologia? Chi si interessa di ecologia ha sempre dietro un coltellino svizzero. All’epoca non capii la battuta:  io portavo con me un coltellino eppure mi reputavo una biologa evolutiva. Il senso è che verso la fine del Ventesimo secolo i naturalisti erano considerati molto distanti dall’evoluzione studiata dai genetisti in laboratorio.

Ora la prospettiva sta cambiando?

Il coltellino svizzero sta tornando di moda. Il Ventunesimo secolo, secondo me, vedrà nuovamente la centralità dell’ambiente nello studio dei processi evolutivi. Il genoma è inerte se non interagisce con ciò che lo circonda. L’espressione di un determinato fenotipo, infatti, non dipende solo dai geni e dalle loro mutazioni, ma anche dagli input che vengono dall’ambiente esterno. Il genoma è invisibile alla selezione naturale, che agisce invece sui fenotipi. C’è una grande plasticità nello sviluppo di un organismo e lo stesso genoma può dare origine a diversi fenotipi. Basti pensare alle vespe: il tipo di cibo è tra i fattori ambientali che determinano se l’insetto diventerà una regina o un’operaia. Questa riorganizzazione dona una grande variabilità di risposta all’organismo, anche se la principale fonte di variazioni proviene sempre dalle mutazioni genetiche. In fin dei conti si tratta di un ritorno a una prospettiva genuinamente darwiniana, in cui un ruolo importante era affidato proprio all’ambiente.

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