Così le banche speculano sul cibo

    Da circa dieci anni stiamo vivendo, direttamente sulla nostra pelle, gli esiti di una crisi economico-finanziaria che, divenuta oramai endemica, sta scuotendo alle fondamenta una buona parte del pianeta. Su di un tale scenario, la parte da protagonista se la sono accaparrata le banche (d’affari e non) che, con sagaci scelte, hanno dato vita alle diverse “bolle” speculative, le hanno portate al loro massimo sviluppo per poi determinarne la crisi. Giunti a questo punto, di solito, parte la fase gestionale che vede la comparsa sulla scena delle varie istituzioni internazionali e nazionali preposte alle operazioni di salvataggio, le quali si prodigano, più o meno malamente, nel tentativo di far sopravvivere le banche più deboli (in nessun caso i soggetti colpiti), magari favorendo la cannibalizzazione di quelle ritenute inidonee alla sopravvivenza. Ovviamente è una partita complessa di cui, usualmente, riusciamo a vedere solo piccoli spezzoni che non ci consentono di comprendere fino in fondo quello che sta accadendo e, soprattutto, il prezzo che saremo chiamati a pagare, che non sarà mai solo un prezzo economico.

    In tal senso mi sembra particolarmente edificante un aspetto dell’attuale crisi, sino ad oggi completamente ignorato dai media, e costituito da un’altra “bolla” in via di dilatazione, quella alimentare. Non è sicuramente cosa di poco conto poiché giunge a toccare direttamente un aspetto fondamentale della vita qual è l’alimentazione; eppure, a parte qualche rara notizia, neppure su Internet si riescono a trovare informazioni adeguate che ci consentano per lo meno di intravedere le conseguenze e i prezzi da pagare nel breve periodo. Per trovare qualcosa diviene così necessario ricorrere a giornali / riviste specializzate o, se si preferisce, di parte / schierati, quali The Ecologist che presenta un panorama abbastanza ampio sull’attuale situazione e sulle prime ripercussioni che si stanno palesando soprattutto nei paesi più poveri.

    Sembrerebbe che tutto abbia avuto inizio negli anni ’90, quando grandi investitori statunitensi (fondi di investimento e pensionistici) chiesero alla più grande banca d’affari del mondo in quale aree fosse ancora possibile effettuare investimenti altamente remunerativi e ragionevolmente sicuri: l’indagine condotta individuò nel comparto agroalimentare uno dei terreni più promettenti. Ovviamente non si trattava di investimenti nel senso intuitivo del termine, quanto operazioni rivolte a lucrare sui prezzi futuri delle derrate alimentari, erano dunque transazioni già ampiamente praticate e conosciute, ma sino ad allora riservate alle parti in causa quali gli agricoltori e i trasformatori delle derrate: in altri termini iniziò un processo che potremmo definire di finanziarizzazione della produzione alimentare che, volendo,  potrebbe essere considerato l’ultimo passo di quel processo di trasformazione a cui si è trovato sottoposto il mondo agricolo che, appena agli inizi del Novecento, era entrato, per lo meno nel mondo occidentale, nella sua fase industriale (grandi investimenti finanziari, meccanizzazione diffusa, uso intensivo di fitofarmaci, sfruttamento estremo delle risorse naturali disponibili). Necessariamente, le conseguenze immediate di tali sviluppi sono state la messa in opera di prassi rigidamente speculative volte a garantire la massimizzazione degli utili dell’investitore: del resto si tratta delle stesse, identiche, azioni che hanno portato alle crisi sopra richiamate. Anche i risultati sono stati quelli attesi, nel senso che sono partite le oscillazioni dei prezzi che ottimizzano il guadagno dell’investitore e determinano l’impoverimento del soggetto chiamato a pagare il conto; la situazione rapidamente è divenuta tale da richiamare l’attenzione degli osservatori più attenti e quindi stimolare una qualche blanda reazione, nella parte ricca del mondo (G20), ossia in quella in cui, in questo momento, affluiscono i guadagni.

    Sul The Ecologist  (settembre 2011) è invece apparso qualche cosa di più concreto, un invito ai correntisti della Barclays affinché intimino alla loro banca di cessare le speculazioni, pena la chiusura del proprio conto; tutto questo mentre si è venuta costituendo un’iniziativa mirata (World Development Movement) intesa a opporsi sistematicamente a tali speculazioni attivando le opportune azioni di stimolo presso il grande pubblico.

    Indipendentemente dal giudizio che si può dare su tali azioni e strategie, mi sembra importante richiamare l’attenzione sul fatto che la speculazione sulle derrate alimentari completa un quadro che vede il dispiegarsi di una campagna aggressiva, complessa e articolata, che prevede inoltre vaste operazioni di land grabbing, ossia l’acquisizione di enormi appezzamenti di terra nei paesi più poveri del pianeta da usarsi a seconda delle richieste del mercato (vedi il caso dei biocombustibili); il quadro può essere arricchito mettendo nel novero la sistematica speculazione sulle materie prime (in tal senso basti guardare l’andamento del prezzo dei carburanti) e, volendo, le recenti iniziative nel nostro paese per privatizzare la gestione dei servizi idrici. Si tratta di un insieme di azioni rivolte a trasformare aspetti essenziali della vita in “opzioni” trattabili in borsa o in asset di bilancio, ossia a smaterializzare la realtà quotidiana consentendone il facile abuso; e mentre futures vengono trattati in Borsa, nella realtà si vengono a maneggiare e degradare, in maniera immediata, porzioni sempre più ampie della biosfera di cui siamo parte integrante.

    Lo schema che si ripete sotto i nostri occhi è quello di sempre, che parte dall’individuazione del “giacimento”, cui segue la messa in essere delle tecniche di sfruttamento più avanzate, con in più oggi l’azione fornita dalla leva della speculazione a livello mondiale che si preoccupa di gonfiare incessantemente i prezzi, fino all’inevitabile crollo, e all’altrettanto inevitabile richiesta alla popolazione dei paesi ricchi (quella dei paesi poveri non potendo fornire altro che la propria, svalutata, manodopera) di ricapitalizzare le banche che non sono riuscite ad entrare nel novero delle migliori. Come credo evidente, non si tratta solo di fronteggiare un innalzamento delle tasse, o di assistere alla riduzione dei finanziamenti della scuola, ma di acconsentire a un impoverimento complessivo della vita, di un degrado del nostro habitat a cui non possiamo sperare di sfuggire.

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