Sfida alla sperimentazione animale

    Verificare gli effetti tossici di un farmaco sui reni, monitorare l’attività cerebrale per comprendere il comportamento umano, studiare gli effetti del disturbo bipolare, misurare le variazioni di temperatura indotte dalla somministrazione di medicinali. Riuscireste a farlo riducendo al minimo il ricorso alla sperimentazione animale? La sfida è stata lanciata ai ricercatori in biomedicina dal NC3Rs (National Centre for the Replacement, Refinement and Reduction of animals in Research), l’istituto inglese che da sette anni persegue tenacemente l’obiettivo delle tre R (ridurre il numero degli animali utilizzati nei laboratori, sostituirli quando è possibile con metodi alternativi ed evitare sofferenze inutili). La competizione, dal significativo titolo “Crack it”, invita gli scienziati a “incrinare” l’attuale cristallizzato sistema di ricerca che preferisce vecchie ma rassicuranti procedure piuttosto che nuove strade ugualmente efficaci. 

    Sul sito dell’iniziativa sono elencate sei precise questioni – che vanno dalla chimica, alla farmaceutica, alle neuroscienze – in cerca di una soluzione: di un metodo di indagine alternativo che riduca al minimo il ricorso alla sperimentazione animale. Accanto a ogni voce è indicato esplicitamente il finanziamento che l’istituto mette a disposizione dei ricercatori (in totale 4,25 milioni di sterline, pari a quasi cinque milioni di euro).

    L’iniziativa dell’istituto inglese, presentata il 20 settembre a Londra, non è isolata. Casualmente coincide con la pubblicazione su Scientific American di un editoriale che critica senza mezzi termini una consuetudine oramai inspiegabile: l’utilizzo degli scimpanzé nella ricerca biomedica. Se la loro presenza nei laboratori poteva essere considerata indispensabile in passato (a loro dobbiamo i vaccini anti polio e contro l’epatite B), oggi, oltre a essere superflua, è diventata immorale. E la loro sofferenza è troppo simile alla nostra per essere trascurata. Per questo l’autorevole rivista americana chiede che vengano introdotte norme più restrittive per chi utilizza animali e maggiori incentivi per chi si avvale di metodi alternativi. In perfetta sintonia con quanto sostengono i cugini inglesi.

    Ma non illudiamoci: il problema non riguarda solo i paesi di cultura anglosassone. Un recente rapporto della LAV dimostra che nei laboratori italiani il ricorso alla sperimentazione animale è in netta crescita, anche quando si tratta di animali particolarmente tutelati: “Le autorizzazioni per gli esperimenti ‘in deroga’ – ovvero l’impiego di cani, gatti e primati non umani, l’utilizzo a fini didattici o il non ricorso ad anestesia – sono aumentate da una media di 141 per il biennio del 2007-2009 a 204 per il 2008-2009: numeri quasi raddoppiati per procedure che invece, per legge (Decreto Legislativo 116/92), dovrebbero rappresentare l’eccezione, in quanto regolamentate in modo restrittivo”.  È chiaro, quindi, che il problema è anche nostro.

    3 Commenti

    1. Qui però si parla solo di RIDURRE il numero di animali utilizzati, pertanto questo resta uno degli articoli meno abilizionisti che io abbia mai letto. L’ingiustificabile presenza degli scimpanzé in laboratorio viene addirittura “considerata indispensabile in passato”, e l’unico criterio per il quale il loro utilizzo andrebbe RIDOTTO è che soffrono anche loro, mica perché scientificamente la loro tortura è inutile! L’ennesima beffa etica a fronte di una sempre attuale pseudo-necessità medica, a cui però bisogna saper rinunciare perché anche le scimmie piangono. E questa sarebbe una rivista scientifica?
      “Verificare gli effetti tossici di un farmaco sui reni [che sono però i reni di un primate], monitorare l’attività cerebrale per comprendere il comportamento umano [tramite un primate? Non sarebbe meglio monitorare un umano? E poi cos’è questa storia: “IL” comportamento umano?? Al mondo la gente ha forse un solo carattere?…], studiare gli effetti del disturbo bipolare [ah certo, i manicomi della giungla sono pieni di primati dalla doppia personalità! Cioè, il bipolarismo è tipicamente umano, e anche se venisse indotto in qualche modo ad un animale, sarebbe fittizio, e quindi imparagonabile al nostro], misurare le variazioni di temperatura indotte dalla somministrazione di medicinali [ma se le variazioni cambiano da persona a persona, cosa ci dirà mai una scimmia a tal riguardo? Le temperature corporee “standard” fra diverse specie non sono neanche le stesse…]. Riuscireste a farlo riducendo al minimo il ricorso alla sperimentazione animale? [Al minimo no: riusciremmo a farlo bene solo se la sperimentazione animale sparisse totalmente]”.

    2. completamente d’accordo con te adrien ma la bioetica è la diatriba recente più difficile da dirimere…questioni troppo soggettive probabilmente…ognuno ha una sua idea di etico…senza contare le troppe ingerenze religiose…quindi cmq ben vengano le iniziative tese almeno a migliorare la situazione 🙂

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