Salute

John Ioannidis: “Avanti con i test, o rischiamo di fare più danno dell’epidemia”

È partito in sordina. Una minaccia lontana, esotica, che uccideva all’altro capo del pianeta. Poi in meno di un mese Sars-Cov-2 ha messo in ginocchio l’Occidente. Agire era necessario, doveroso, e lo abbiamo fatto con coraggio, senza risparmiare nulla di fronte al rischio di una potenziale catastrofe. Ma lo sforzo a cui ci stiamo sottoponendo presenterà un conto altissimo per le nostre società: le lancette corrono veloci, e la verità è che sappiamo ancora poco sul nostro nemico. Non sappiamo come curarlo, come arginarlo, quanto è diffuso nella popolazione, quanto uccide, o persino chi uccide realmente. E senza informazioni affidabili, il rischio di fare danni si fa sempre più concreto. L’enfasi sull’azione, inevitabile nelle prime ore, dovrebbe lasciare il posto a una nuova urgenza: quella di ottenere dati scientifici inequivocabili, con cui modulare la risposta alla pandemia in corso.

Perché ora il rischio è quello di fare danni in buona fede; uccidere più persone di quelle che vorremmo salvare, trasformando Covid-19 in un incredibile fiasco scientifico di proporzioni globali. Opinioni scomode, forse, che arrivano però da un esperto di prim’ordine: John Ioannidis, epidemiologo, pioniere delle metanalisi scientifiche, e docente di Disease Prevention, Health Research and Policy, Biomedical Data Science e statistica a Stanford. Il suo punto di vista sulla pandemia è affidato a un editoriale sull’European Journal of Clinical Investigation dal titolo inequivocabile: Coronavirus disease 2019: the harms of exaggerated information and non‐evidence‐based measures. Wired lo ha intervistato per capire meglio da dove nascono i suoi timori.

Professor Ioannidis, ci sembra di capire che secondo lei al momento stiamo agendo senza avere alcun dato affidabile a guidarci nella battaglia contro Covid-19. È così?

“Covid-19 al momento è sicuramente la più grave minaccia che incombe sul nostro pianeta. Dobbiamo agire velocemente, e per farlo ci servono dati scientifici affidabili che guidino le nostre scelte. Sfortunatamente molte delle informazioni che abbiamo raccolto fino a ora non lo sono. Non è colpa di nessuno, di fronte a una nuova pandemia è difficile raccogliere dati affidabili. Ma quello che sta emergendo negli ultimi giorni è che le stime iniziali su molte delle caratteristiche salienti di questa pandemia, quanto sia letale, quante persone ha già contagiato, quali conseguenze potrebbe avere e quanto siano efficaci le misure messe in campo, sono probabilmente sbagliate. Si tratta di un gap che va riempito il più velocemente possibile. È chiaro che non possiamo stare con le mani in mano, ma al contempo, prima avremo un’idea chiara del nemico che stiamo affrontando, minori saranno i rischi di prendere decisioni controproducenti”.

Cosa sappiamo oggi della letalità del virus?

Le stime cambiano di giorno in giorno, ma quello che mi pare indichino i dati più recenti è che probabilmente la letalità di Covid-19 è inferiore alle stime iniziali, come capitato spesso in passato per altri virus respiratori. I dati diffusi dall’Oms qualche settimana fa parlavano di una letalità pari al 3,4%, ma si tratta di quella che chiamiamo case-fatality rate, un calcolo che vede al numeratore il numero di morti accertate e al denominatore quello dei casi noti. Si tratta di stima per forza di cose grossolana, che dipende fortemente dalla nostra capacità di identificare le persone infette.

Se il numero reale di contagi è molto superiore a quelli che conosciamo lo scenario cambia completamente, e il numero di persone che rischia di morire in questa epidemia diminuisce drasticamente. Se la proporzione di persone che ha già contratto il virus, e che quindi evidentemente ha sviluppato sintomi lievi e difficilmente è stata testata per il virus, è abbastanza ampia potremmo persino trovarci nella situazione in cui nella popolazione può svilupparsi un’immunità di gregge”.

Ma quanto possiamo esserne sicuri?

“Ovviamente non c’è alcuna certezza che sia questa la situazione reale, però alcuni esempi dove conosciamo con più precisione lo scenario epidemiologico, come per esempio la Diamond Princess e l’Islanda, dove una larghissima parte della popolazione è stata sottoposta ai tamponi, suggeriscono che l’infection-fatality rate, la percentuale di morti sul numero reale di infetti, potrebbe essere molto più basso delle stime dell’Oms. Molto più basso anche di quello 0,9% utilizzato nelle scorse settimane dai ricercatori dell’Imperial College per stimare l’impatto della pandemia, e più simile invece a quello che vediamo ogni anno con lepidemia stagionale di influenza. Anche se fosse così non vorrebbe dire che il problema non esiste, perché l’influenza è una malattia pericolosa che uccide centinaia di migliaia di persone ogni anno. Ma avere dati affidabili non serve a rassicurare la popolazione, serve a evitare di continuare ad agire alla cieca”.

Dati affidabili però non li abbiamo ancora. Come dovrebbero decidere i nostri governi quali strategie mettere in campo per affrontare l’epidemia?

“Non sta a me dire ai governi cosa fare, e vorrei evitare di unirmi al coro di esperti che continuano a dare raccomandazioni di ogni tipo. Sicuramente nelle fasi iniziali di questa pandemia bisognava agire velocemente, e sono state prese le misure ritenute più idonee per difendere la propria nazione. Quello che posso ribadire è che servono al più presto dati affidabili su cui basare le prossime decisioni, informazioni che invece per ora sono mancate e hanno costretto i decisori ad agire alla cieca. E che agendo alla cieca esiste il rischio concreto di fare molti più danni di quelli che si cerca di evitare.

Se per esempio la letalità di Sars-cov-2 fosse realmente molto inferiore a quella che temiamo, e si avvicinasse come indicano i dati islandesi a quella di una malattia poco più pericolosa, se non addirittura meno letale, dell’influenza stagionale, allora le misure di distanziamento sociale che sono state adottate in molti paesi potrebbero facilmente rivelarsi inutili, anzi dannose”.

In che senso dannose?

“I dati italiani parlano di un’elevata mortalità nella popolazione anziana e in soggetti affetti da due o più patologie preesistenti. Se la malattia si rivelasse estremamente diffusa nella popolazione e molto poco letale nelle fasce più giovani, chiudere i soggetti a rischio per settimane in casa con i familiari potrebbe solamente aver aumentato le probabilità che si infettassero, ottenendo l’effetto opposto a quello voluto, aumentando il numero dei decessi tra gli anziani.

Non dimentichiamoci poi che il lockdown di una nazione ha un costo elevatissimo per l’economia, e le crisi economiche sappiamo che hanno un enorme impatto in termini di vite umane: suicidi, malattie legate alla povertà, aumento di patologie cardiovascolari, inevitabili tagli alle spese sanitarie che finiscono per provocare ulteriori morti. Non è tutto, pensiamo a quel grafico che ha girato molto sui social media in cui si spiega a cosa serve appiattire il picco epidemico per evitare che il numero di pazienti superi le capacità del sistema sanitario. In teoria sembra intuitivo, ma immaginiamo che le misure di distanziamento prese non siano sufficienti a impedire il sovraccarico del sistema sanitario. In questo caso l’appiattimento della curva epidemica non fa che prolungare il periodo di sovraccarico del sistema, e la mortalità in eccesso causata dall’impossibilità di curare adeguatamente altre patologie, a causa del sovraffollamento degli ospedali, potrebbe rivelarsi superiore a quella che avremmo visto con un picco epidemico più elevato ma di durata minore. Senza dati accurati, insomma, è impossibile giudicare pro e contro degli interventi che si mettono in campo”.

In Italia un gruppo di scienziati ha lanciato un appello per aumentare il numero di tamponi, ma al momento l’attenzione del governo sembra concentrata completamente sulla gestione dell’emergenza nei focolai epidemici del Nord. Pensa che sia una strategia sensata?

“Assolutamente no. Testare un campione randomizzato della popolazione per avere stime credibili della reale diffusione di una malattia è epidemiologia di base. Fare i test costa poco, e fornisce informazioni preziosissime con cui procedere nella gestione dell’epidemia. Siete in lockdown da diverse settimane e ogni giorno le ripercussioni economiche e sociali di queste misure non fanno che aumentare. La priorità dovrebbe essere quella di effettuare i test, per avere un’idea precisa di cosa state affrontando. Se per esempio la letalità reale di Covid-19, che al momento in Italia sembra essere elevatissima, si confermasse molto più bassa, la scelta più logica sarebbe probabilmente quella di riaprire al più presto almeno alcune aree del paese, e passare magari a una strategia di isolamento indirizzata unicamente ai soggetti a rischio”.

Guardando ai numeri diffusi dall’Oms nelle scorse settimane quello che salta all’occhio è una totale eterogeneità dei dati. Ogni nazione sembra fare per conto proprio, non esistono protocolli condivisi per la raccolta dei dati epidemiologici in caso di pandemie come questa?

“No, ed è questo il problema. Dall’inizio dell’emergenza ognuno ha raccolto i dati come meglio credeva. Ma il numero di contagi ha un significato molto diverso se si testa una percentuale maggiore o minore della popolazione. E persino il numero dei decessi può raccontare storie molto diverse in base ai criteri con cui si decide di identificare un morto per la Covid. È assolutamente necessaria una standardizzazione nella procedura di raccolta dei dati, che in caso di nuove pandemie permetta di avere il prima possibile un’immagine precisa della malattia che ci troviamo ad affrontare, in modo che grazie alle informazioni raccolte da tutti ogni stato possa prendere decisioni ponderate su come affrontarla. In questa occasione mi sembra invece che si sia proceduto sull’onda del panico, nella confusione generali dei numeri i governi hanno preso decisioni motivate dalla necessità di non essere accusati di fare troppo poco. E presto potremmo trovarci a pagare un prezzo molto alto se continueremo a muoverci alla cieca”.

Via: Wired.it

Leggi anche su Galileo: Coronavirus: i cittadini europei chiamano, l’Unione Europea risponda

Credits immagine: Martin Sanchez on Unsplash

Simone Valesini

Giornalista scientifico a Galileo, Giornale di Scienza dal 2012. Laureato in Filosofia della Scienza, collabora con Wired, L'Espresso, Repubblica.it.

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