I soldi fanno davvero la felicità?

“Abbiamo scoperto prove molto chiare che in tutte le nazioni del mondo i ricchi sono più felici dei poveri. E la popolazione delle nazioni più ricche è più felice di quella delle nazioni più povere”. Lo affermano gli economisti Betsey Stevenson e Justin Wolfers in uno studio pubblicato sul National Bureau of Economic Research. Un chiarissimo esempio di scienza dell’ovvio, a prima vista: serviva davvero ribadirlo? Probabilmente sì, per almeno due ragioni. La prima è che c’è anche chi sostiene il contrario (è il cosiddetto paradosso di Easterlin). Il secondo è che, nella scienza, tutto va sempre dimostrato. Anche l’ovvio. Soprattutto l’ovvio, a volte.

Il legame tra denaro e felicità è il soggetto di un lungo report appena pubblicato sul Wall Street Jorunal, che ricostruisce i risultati degli ultimi dieci anni di ricerca da parte di psicologi ed economisti. Scoprendo che alcune delle conclusioni, in realtà, non sono proprio così tanto ovvie come possa sembrare a prima vista. A rendere felici le persone, naturalmente – a parte eccezioni quasi patologiche – non sono tanto i soldi, ma come li si spende. E già qui si arriva al primo nodo poco chiaro della questione. Ryan Howell, professore associato di psicologia alla San Francisco State University, ha infatti scoperto che contrariamente alle aspettative, le persone pensano che l’acquisto di beni materiali sia un uso migliore del denaro rispetto all’acquisto di esperienze di vita come concerti e viaggi (“contrariamente alle aspettative” perché esperimenti precedenti avevano mostrato che le persone ritenessero di ricavare più piacere da tali esperienze che non dal possesso di cose). La gente, secondo Howell, continua ad acquistare beni materiali perché sono tangibili e apparentemente più duraturi, mentre viaggi e vacanze danno l’impressione di finire presto. 

Il risultato è stato confermato anche da Thomas Gilovich, psicologo alla Cornell University: “Le persone spesso eseguono un calcolo razionale: ho risorse finanziarie limitate; posso fare un viaggio o comprare uno smartphone. Il viaggio finirà, invece l’oggetto durerà a lungo. È certamente vero da un punto di vista materiale, ma non necessariamente da un punto di vista psicologico”. Secondo Gilovich, il busillis sta in quello che definisce adattamento edonistico, il processo per cui si tende ad abituarsi alle cose materiali che quindi, pur durando a lungo (il che, tra l’altro, è opinabile, ma questo è un altro discorso), tendono a esaurire presto la propria carica di felicità nei confronti del possessore. “Le esperienze di vita, invece, soddisfano una parte più ampia dei nostri bisogni psicologici”, continua Gilovich. “Spesso le condividiamo con altri, il che ci dà un senso più ampio di connessione, e formano la nostra identità. Se avete scalato l’Himalaya, avrete di sicuro qualcosa da ricordare e di cui parlare per sempre. Anche molto dopo che i vostri gadget siano finiti in discarica”.

Bene. Assodato che un on the road, a parità di costo, vale emotivamente più di un iPhone 6 (sembra ovvio, ma, ancora una volta, non lo è), c’è un modo per tirare fuori il meglio dai beni materiali? Sì: bisogna interrompere, o per lo meno rallentare, il processo di adattamento edonistico. Sonja Lyubomirsky, della University of California, Riverside, sostiene che è difficile, ma possibile: “Supponiamo abbiate un aumento. Sarete più felici per un po’, ma le vostre ambizioni cambieranno di conseguenza. Forse comprerete una nuova casa in un quartiere migliore: avrete vicini più ricchi e desidererete possedere quello che hanno loro. Avrete fatto un passo avanti nella scala dell’edonismo”. Per apprezzare le cose che avete e massimizzare la felicità che potete cavarci, servono novità e sorpresa. E privazione: se vi staccate per un paio di giorni dal vostro smartphone nuovo di zecca, magari prestandolo a qualcuno, proverete più piacere nel riaverlo e ricominciare a usarlo. E magari, su quella scala dell’edonismo, avrete sceso un gradino.

Un altro punto importante nell’analisi del legame tra denaro e felicità riguarda una variabile il cui prezzo è spesso non quantificabile. Il tempo. Se volete essere felici, raccomanda Elizabeth Dunn, professore associato di psicologia alla University of British Columbia, “usate i soldi per comprare meglio il vostro tempo. Non comprate una macchina più lussuosa per avere sedili riscaldati durante il vostro viaggio quotidiano di due ore verso il lavoro. Comprate una casa più vicina al lavoro, cosicché possiate usare quell’ora di luce in più per giocare nel parco con i vostri figli”. Quello del pendolarismo, in effetti, è un aspetto da non sottovalutare: uno studio del 2004 di Alois Stutzer e Bruno Frey, della University of Zurich, ha mostrato che servirebbe un aumento di stipendio del 40% per compensare l’infelicità causata da un’ora di spostamenti pendolari ogni giorno.

E ancora. I soldi danno la felicità. Ma quale felicità? Secondo gli psicologi, sono almeno due le componenti che concorrono a costituire il nostro benessere. La prima misura della felicità è di tipo valutativo, ovvero, spiega Lyubomirsky, “la sensazione che la propria vita sia buona: siete soddisfatti e procedete verso i vostri obiettivi”. La seconda è quella affettiva, che misura quanto spesso si provano emozioni positive, come gioia, affetto o tranquillità, rispetto a quelle negative. E mentre la prima è, parlando rozzamente, in qualche modo proporzionale al reddito, la seconda tende, a un certo punto (intorno ai 75mila dollari l’anno, secondo i calcoli di Daniel Kahneman e Angus Deaton, della Princeton University) ad arrivare a saturazione. Nel senso che non aumenta versando altri soldi nel conto corrente.

In ogni caso, parlare di problemi come questo potrebbe sembrare un filo anacronistico, in un momento in cui una famiglia su cinque e quasi un milione e mezzo di minori sono sotto la soglia di povertà (i tristemente famosi nuovi poveri). Ce ne rendiamo perfettamente conto. Tant’è che psicologi ed economisti sottolineano che “prima di spendere soldi per la vacanza dei propri sogni, bisogna assicurarsi di essersi assicurati delle necessità primarie, d aver pagato i propri debiti e di avere abbastanza denaro per proteggervi dagli imprevisti della vita”. Menomale che ce lo dicono loro. 

Credits immagine: Cayusa/Flickr

Via: Wired.it

1 commento

  1. Qui si parla solo di felicità come maggiore capacità di spendere o di costruirsi delle buone relazioni sociali, e che dire di quella felicità che attraversa chi realizza, dopo un bilancio onesto delle proprie azioni, di aver prodotto qualcosa di bello, creativo, utile per l’avanzamento della conoscenza o anche in astratto per il benessere delle future generazioni, che magari si accontenta di vivere in un monolocale e spostarsi in metro pur potendosi permettere molto di più?

    Ma poi che fine ha fatto quella ricerca che indicava una soglia oltre la quale il grado di felicità vs reddito rimaneva praticamente costante dopo una fase di crescità pressoché lineare?
    A me pare tanto che queste ricerche siano confezionate per produrre la tesi che più si desidera, del resto non mi sorprende che compaiano su certi giornali.

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