Epidemiologia, il pensiero causale in medicina

    Carl Gustav Hempel, in uno dei suoi più importanti scritti sulla filosofia della scienza, descrive il lavoro di Ignatz Sommelweis come un esempio di corretta procedura scientifica basata sul procedimento per “tentativo ed errore”.

    L’osservazione della febbre puerperale

    Semmelweis esaminò la comparsa della “febbre puerperale” in un certo lasso di tempo nelle due cliniche ostetriche dell’Ospedale di Vienna (l’Allgemeines Krankenhaus): nel primo periodo (1833-1858) la mortalità data dalla febbre puerperale era molto simile in entrambe le cliniche, mentre nel secondo periodo (1840-1846) si manifestò una notevole differenza. Infatti nella prima clinica si verificarono 1.989 casi di decesso su 20.042 donne, contro i 691 su 17.791 della seconda. L’unico elemento che poteva distinguere i due periodi di tempo era che negli anni 1840-46 gli studenti della prima clinica svolgevano la pratica dell’autopsia come parte integrante della loro formazione.

    Questo suggerì a Sommelweis l’ipotesi che l’origine della febbre puerperale potesse essere collegata all’azione di alcune “particelle” trasmesse dai cadaveri. Questa ipotesi venne rafforzata in seguito alla morte di Kolletschka, professore di patologia e amico di Semmelweis, morto in seguito a una malattia molto simile alla febbre puerperale, sopraggiunta dopo essersi ferito un dito durante un’autopsia. Dopo il 1846, Sommelweis fece un esperimento: introdusse semplicemente la pratica di lavarsi le mani dopo le autopsie e prima di visitare le donne nel dipartimento ostetrico. La mortalità causata dalla febbre puerperale diminuì improvvisamente arrivando a meno del 3% in entrambe le cliniche.

    Hempel descrive le procedure inferenziali usate da Semmelweis come un esempio di “tentativo ed errore” : dopo le prime osservazioni epidemiologiche che suggerivano la trasmissione di “particelle” dai cadaveri, egli tentò di individuare possibili elementi che potessero falsificare la sua ipotesi e le possibili spiegazioni alternative. Per esempio, egli escluse che la malattia fosse contratta prima del ricovero in ospedale per cause connesse alle condizioni di vita delle donne. Escluse anche, in parte grazie ad esperimenti, molti altri potenziali elementi di confusione o le idee precostituite. Il lavoro di Semmelweis può essere descritto secondo l’idea dell’ “arco di conoscenza”, cioè la sua ricerca può essere sintetizzata in quattro fasi:

    1. La generazione di ipotesi da osservazioni cliniche

    2. Il rafforzamento delle ipotesi sulla base di osservazioni epidemiologiche pianificate

    3. La verifica delle ipotesi tramite un progetto di studio formale (nella ricerca clinica il livello di maggiore qualità della sperimentazione è rappresentato dalla Sperimentazione Clinica Randomizzata).

    4. L’intervento, cioè il cambiamento deliberato delle circostanze di esposizione per prevenire la comparsa della malattia.

    Le fasi 1 e 2 sono la parte ascendente nell’arco della conoscenza (induzione), mentre le fasi 3 e 4 ne costituiscono la parte discendente (deduzione).

    La ricostruzione logica del lavoro di Semmelweis proposta da Hempel è una buona introduzione al pensiero causale in una scienza non sperimentale come l’epidemiologia, sebbene si possa non essere d’accordo con il modello “tentativo ed errore” da lui proposto. A differenza di Popper, Hempel non sottolinea i limiti della natura osservativa (non sperimentale) dell’epidemiologia. (Per inciso, la descrizione del lavoro di Semmelweis non si può considerare separatamente dalla sua biografia, ed in particolare dalla sua malattia mentale e la tendenza all’autodistruzione).

    Dalla monocasualità alla molteplicità delle cause

    In maniera piuttosto semplificata, si può dire che la causalità implica un legame almeno fra due entità, un agente e una malattia. Entrambe possono essere facilmente definite ed identificate, o al contrario, possono avere insiemi “non definiti” cioè avere dei confini sfocati.In base a ciò, si possono individuare tre periodi nella storia della causalità in medicina negli ultimi due secoli.

    Il primo periodo corrisponde alla rivoluzione microbiologica, cioè il trionfo del concetto di causa come monocasualità lineare (aristotelica). Dopo gli studi di Pasteur e Koch, l’agente di una malattia era concepito come una singola causa necessaria (esempio il Mycobacterium per la tubercolosi). Il concetto di causa necessaria significa che la malattia non si sviluppa senza l’esposizione all’agente patogeno. Tale punto di vista implica:

    a) che la causa è definibile in maniera univoca ed è facilmente identificabile;

    b) che anche la malattia può essere definita in maniera univoca, cioè non è una costellazione complessa e variabile di sintomi.

    Talvolta condizioni simili si manifestano chiaramente e la relazione tra una causa (necessaria) e la malattia corrispondente è evidente: per esempio il vaiolo è un ‘entità patologica ben definita, facilmente descrivibile e diagnosticabile. E’ dovuta ad un singolo virus necessario (il vaiolo non si sviluppa in assenza del virus specifico); e la prova evidente del legame causale sta dalla scomparsa di questa malattia dopo una lunga serie di vaccinazioni.

    In altre occasioni, la malattia in sé stessa è in parte definibile in base alla sua causa: per esempio, dal punto di vista della sintomatologia, la tubercolosi è una costellazione complessa, e l’unico elemento unificante è stato l’aver identificato il Mycobacterium direttamente (microscopicamente nelle lesioni) o indirettamente (immunologicamente).

    Nel caso del vaiolo la sintomatologia della malattia è così caratteristica, e la specificità della relazione fra la causa e l’effetto così chiara, che riferirsi al virus del vaiolo come causa necessaria sembra naturale. Nel caso della tubercolosi, invece, il carattere necessario della causa è meno evidente, dal momento che solo una sola parte delle manifestazioni patologiche possono essere ricondotte alla causa.

    Casi simili al vaiolo sono una minoranza; più frequentemente, nel paradigma di “Pasteur-Kock” si trova un agente patogeno ben definito (spesso un batterio, un parassita o un virus) che è utilizzato come “fattore unificante” di una costellazione di sintomi: in questo caso la malattia stessa è per lo più definita e riconosciuta in base all’agente patogeno. La fama dell’approccio “Pasteur- Kock” alla causalità non è diminuita, ed l’idea della presenza di una causa necessaria in una malattia è stata riproposta recentemente come un paradigma universale della medicina.

    Il secondo periodo si riferisce alle affezioni croniche come il cancro o le malattie cardiovascolari. In questo caso il concetto di “necessario” non è applicabile sulla base delle conoscenze correnti. Nessuna causa “necessaria” del cancro è conosciuta; piuttosto, è stata introdotta e largamente applicata l’idea di una ” rete causale”. Questa idea implica che per indurre la malattia è richiesta la concomitanza di differenti “esposizioni” o condizioni, nessuna delle quali è necessaria. Per esempio, il cancro del polmone può essere indotto da una molteplicità di fattori, come il fumo e la predisposizione individuale basata sul genotipo CYP1A1. Un’altra rete di cause può esser rappresentata dall’esposizione all’amianto e dal poco consumo di frutta e verdura crude in presenza di mesotelioma.

    L’idea della molteplicità implica che, mentre una malattia è generalmente ben definita dal punto di vista clinico (cancro del polmone o mesotelioma), gli agenti causali sono classificati secondo una classificazione “politetica”: i casi di cancro al polmone non sono caratterizzati tutti dallo stesso fattore, ma hanno in comune una sovrapposizione parziale di cause. L’idea della classificazione “politetica” corrisponde alla definizione di Wittgenstein di “una lunga corda attorcigliata composta da una molteplicità di fibre più corte”.

    Il concetto di rete causale era già stato introdotto nella filosofia della causalità dal filosofo inglese John Mackie, che coniò l’espressione INUS (Insufficient Non-redundant component of Unnecessary Sufficient Complex), “componente insufficiente non ridondante di un complesso sufficiente non necessario”. Per esempio, nella spiegazione del perchè un incendio ha distrutto una casa, si potrebbero distinguere diverse componenti di una complesso di cause, come un vento forte, il fatto che il forno elettrico era rimasto acceso, il mancato funzionamento del sistema di allarme. In un tale complesso, sufficiente a innescare l’incendio, almeno una componente non è ridondante (cioè è una condizione INUS), come ad esempio il mancato funzionamento del sistema d’allarme (mentre il vento forte non è una codizione INUS).

    La definizione di INUS corrisponde alla logica dei “condizionali controfattuali”, ovvero al chiedersi per ciascuna componente del complesso causale se in sua assenza l’effetto si sarebbe sviluppato egualmente. Chiaramente, l’idea di INUS intende ancora il concetto di causa come evento necessario, anche se nel contesto di complessi causali.

    Nella epidemiologia delle malattie croniche si è in presenza di complessi causali senza singole componenti necessarie. Tuttavia, ciò è vero soltanto se consideriamo la causalità a livello individuale: non è possibile identificare la causa necessaria che spieghi la comparsa di un singolo caso di cancro, mentre è possibile identificare un componente non ridondante nella rete di cause che ha provocato l’incendio.

    Dall’individuo alla popolazione

    Se ci si sposta dall’individuale al collettivo, allora l’idea delle componenti “non ridondanti” acquista senso. Se si considera questa epidemia del nostro secolo che è il cancro al polmone, non vi sono dubbi che essa si debba attribuire all’abitudine di fumare. Sebbene non sia possibile far risalire ogni singolo caso di cancro al polmone al fumo del singolo, si è però certi che a livello della popolazione la malattia non si sarebbe verificata senza la diffusione del fumo (condizionale controfattuale). Il rischio di cancro nei soggetti che smettono di fumare diminuisce sensibilmente rispetto a chi continua a fumare, e raggiunge lo stesso livello dei non fumatori dopo alcuni anni. Risulta evidente, dunque, che occorre applicare criteri differenti di causalità se si prende in esame il livello dell’individuo o quello della popolazione. Si può affermare che per le malattie croniche il modello INUS è valido al livello della popolazione.

    Il terzo periodo è perfino più complesso del precedente. Nel caso di malattie come la schizofrenia o la bulimia e l’anoressia, sia la malattia che l’agente patogeno hanno confini sfocati. La malattia non può essere facilmente distinta da altre costellazioni sintomatologiche simili (per esempio la bulimia è caratterizzata fra le altre cose dalla obesità e dal “mangiare in maniera smodata”), ed i complessi causali sono alquanto mal definiti e vaghi. In questo caso ci si sposta dal paradigma scientifico classico della “spiegazione” al più evasivo e cauto paradigma della “comprensione” (Von Wright) così come viene usato dalle scienze psicosociali.

    Quello che dovrebbe essere evidente è che esiste un continuum fra le tre categorie, e che malattie come il vaiolo si trovano ad una delle estremità della gamma, mentre l’altra è rappresentata, per esempio, dai diversi disordini fisici.

    (Traduzione di Flavia Castellano)

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