In Italia si sperimenta un nuovo approccio contro il bullismo

A scuola, a seguito di un atto di bullismo, i docenti individuano il responsabile e scelgono la punizione da applicare, che può andare da un semplice richiamo fino alla sospensione o l’espulsione dall’istituto. Che cosa è stato risolto? Pressoché niente. La vittima di un’azione violenta e intenzionale non trae alcun beneficio effettivo. Il colpevole non ha modo di ragionare su ciò che ha compiuto e non ricava alcuno stimolo a modificare il proprio comportamento, fatta eccezione di quello che deriva dalla paura di subire una punizione.

Da decenni si studia l’argomento e si cercano nuovi approcci per risolvere nel profondo simili situazioni, complicate negli ultimi anni anche dalla diffusione del cosiddetto cyberbullismo. In Italia però si è dato scarso peso al fenomeno fino a quando le sue gravi conseguenze non hanno occupato le pagine di cronaca. Presto però le cose potrebbero cambiare, grazie al progetto europeoJoining Forces to Combat Cyber Bullying in Schools“, finanziato attraverso il Programma “Daphne” e coordinato in Italia dall’Associazione Educazione Media Comunità, realtà che si occupa da 5 anni di educazione all’uso critico dei media digitali.

Il fulcro del progetto consiste nel promuovere una cultura di gestione positiva dei conflitti nella scuola tramite la sperimentazione di nuove strategie e metodi per prevenire, ridurre e risolvere i conflitti, con una particolare attenzione ai fenomeni di cyberbullismo.

“Il bullismo era molto diffuso in Gran Bretagna negli Anni ‘80 ed erano state messe in campo diverse strategie per contrastare il problema. Gran parte di queste strategie si basavano sulla punizione esemplare. Di fronte al fallimento di questo metodo si è cominciato a testare strategie diverse fino a individuare, nei primi Anni ’90, quello che è stato chiamato No Blame Approach (Approccio non punitivo)” spiega Giacomo Trevisan, Coordinatore Regionale dell’associazione Media Educazione Comunità. “Lo scopo principale non era più la deterrenza della punizione. Si partiva dalla vittima, capendo cosa poteva migliorarne la condizione, e venivano messe in atto strategie che richiedevano la collaborazione tra pari, comprese le stesse persone che si erano macchiate di un comportamento aggressivo e scorretto”.


Il No Blame Approach, teorizzato dagli educatori Barbara Maines e George Robinson e introdotto su scala nazionale nel sistema scolastico britannico, non fu esente da critiche.

“Il messaggio che arrivava agli studenti veniva spesso frainteso: l’avere compiuto azioni negative non avrebbe comportato conseguenze”, continua Trevisan. “Tuttavia erano state gettate le basi per affrontare il bullismo con uno sguardo diverso, tanto che i principi del No Blame Approach vennero applicati qualche anno dopo in Germania, tra il 2004 e il 2006. Gli educatori e gli insegnanti tedeschi hanno analizzato e rielaborato i principi del metodo e con le modifiche l’hanno applicato su più di 200 scuole. Si era giunti al Support Group Approach, un’evoluzione del metodo britannico che consiste in un approccio sistemico che coinvolge l’intera comunità scolastica. Lo hanno testato e il risultato è stato straordinario. Il 96% delle scuole che lo hanno utilizzato hanno espresso un alto grado di soddisfazione e l’80% di casi di bullismo ha avuto una risoluzione positiva. La strada, a questo punto, era già definita e alcuni dei contenuti avevano un valore sperimentale molto interessante. In Italia non si era mai sperimentato in maniera scientifica, con dei report e dei dati sui risultati ottenuti. Lo stiamo facendo noi”.

L’introduzione del metodo vede la collaborazione della Cooperativa “Punto Zero”, da molti anni impegnata in progetti artistici e culturali. Francesco Rossi, uno dei soci, descrive le caratteristiche di questo progetto: “Stiamo parlando di un progetto sperimentale in ambito educativo, che rientra nel Programma Daphne, uno dei sottoprogrammi del più grande Programma Giustizia. I capisaldi sono attività nelle scuole, attività inclusive, attività che vengano incontro ai soggetti più svantaggiati attraverso azioni creative. A queste, si sono aggiunti due punti forti: quello del cyberbullismo, in quanto istanza arrivata proprio dalla Comunità Europea, e quello del No Blame Approach e della sua evoluzione applicata in Germania. Il progetto si compone di una serie di attività nelle scuole che si accompagnano ad attività fatte con la modalità di campus. Su entrambi i binari si cerca di portare avanti sia un approccio educativo più focalizzato sui contenuti, sensibilizzazione ai media e al loro utilizzo, sia un approccio creativo. Da qui nasce il rapporto con l’Associazione Educazione Media Comunità con cui portiamo avanti assieme il progetto in Italia”.

“L’aspetto intrigante”, prosegue Rossi, “è che stiamo parlando di qualcosa su cui non ci sono ancora delle vere e proprie basi teoriche o delle pratiche consolidate. Uno dei nostri obiettivi principali, infatti, è capire se un metodo che aveva già dimostrato di avere delle potenzialità in un ambito potesse essere trasferito in un altro contesto. A completamento del progetto emergeranno dei dati e, di conseguenza, verranno rilasciate per la prima volta le linee guida, le dispense e i materiali in grado di aiutare i formatori. Il punto è proprio questo: il target non sono i ragazzi coinvolti e nemmeno gli educatori. Si tratta di un gruppo pilota su cui sperimentare un’azione che poi ha come target tutto il resto dei ragazzi potenzialmente interessati”.

Non è la prima volta che l’Italia si muove in ritardo in materia di emarginazione sociale. Il cyberbullismo è la parte più nascosta di un territorio non del tutto esplorato e la sua stessa definizione rimane tutt’oggi in bilico.

“L’impressione di chi lavora in questo campo è che i decisori politici siano molto poco interessati. Parlare di cyberbullismo va di “moda” in Italia negli ultimi 2/3 anni. In realtà è stato riscontrato dagli Anni ’90. L’elemento chiave è costituito da una temporalità molto diversa e da una scarsa possibilità di controllo. Il cyberbullismo non può essere separato dal bullismo “tradizionale” pur essendo stato dimostrato che le logiche che lo accompagnano – emotive, psicologiche, di gruppo – siano le medesime. La differenza risiede nella portata del pubblico e nel peso di non poterlo limitare nello spazio e nel tempo. Fare comprendere queste dinamiche a ragazzi e ragazze è uno dei nostri obiettivi così come lo è il fornire loro gli strumenti per essere consapevoli delle dinamiche emotive dell’esclusione sociale. Dietro al progetto c’è una grande fiducia nel fatto che studenti e studentesse abbiano i mezzi per riuscire ad autoregolarsi. Durante il mese di agosto si è concluso il secondo campus estivo che ha prodotto una serie di materiali multimediali che verranno utilizzati nella campagna di disseminazione che avrà inizio a novembre”.

La sperimentazione è in corso in sei scuole delle Regioni Veneto e Friuli Venezia-Giulia ma riuscire a coinvolgere gli istituti non è stato facile. La rinuncia all’utilizzo di metodi non punitivi non costituisce un’idea diffusa. Una delle scuole che ha aderito è l’Istituto Tecnico Commerciale Riccati-Luzzatti di Treviso. “Gli esiti sono stati più che positivi, e abbiamo attivato due percorsi in parallelo: uno per gli alunni e uno per gli educatori e i formatori”, racconta Francesco Donà, il docente coordinatore interno all’Istituto. “Quindici ragazzi del biennio delle superiori, undici femmine e quattro maschi, hanno seguito un percorso di formazione con gli esperti di circa quindici incontri pomeridiani di un’ora e mezza. L’adesione è stata completamente volontaria. Sono state affrontate varie simulazioni, ipotizzando situazioni particolari in cui avveniva l’incontro tra il bullo, la vittima e i tutor di riferimento. Gli esperti e gli insegnanti seguivano lo svolgersi della discussione mentre veniva verificato che gli stessi docenti applicassero le nuove tecniche acquisite. Al contempo è stato attuato un percorso di formazione di dodici ore agli insegnanti con il pedagogo dell’Università di Padova Giuseppe Milan e al personale dell’Associazione Educazione Media Comunità. Grazie a esperienze come queste risaliremo alla formulazione di alcune linee guida rivolte al personale scolastico. Al rientro a scuola, quest’anno, avremo già nuove capacità per riconoscere, se non altro, situazioni che prima risultavano invisibili ai nostri occhi. Similmente gli alunni dovranno gradualmente diventare costruttori responsabili della scuola e non semplici fruitori di un servizio. Nonostante si sia ancora all’inizio, penso sia un’operazione sociale di livello”.

La sperimentazione si concluderà al termine del prossimo anno scolastico. Sarà a quel punto che gli attori coinvolti raccoglieranno i dati, li analizzeranno e forniranno le prime linee guida in Italia. La Scuola dovrà rispondere in modo ufficiale alle nuove esigenze e percorrere una strada per capire meglio l’evoluzione dei rapporti con il prossimo. Quanto appena descritto rappresenta il primo passo in questa direzione.

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