La cannabis? Un’erba benefica

Nell’America degli anni Sessanta la marijuana cominciava a essere molto popolare tra i giovani e le autorità, allarmate, avevano già avviato la propaganda sulla sua nocività, arrivando a sostenere che lo spinello portava alla follia. Fu così che, stimolato dall’interesse delle istituzioni, Lester Grinspoon, allora giovane psichiatra e oggi professore all’Università di Harvard, pensò di verificare la letteratura esistente sulla pericolosità della canapa. I risultati della ricerca furono decisamente inaspettati: sulla presunta dannosità delle proprietà psicofarmacologiche della cannabis non c’erano sufficienti evidenze, almeno non tante quante ne avevano le conseguenze legali e sociali del suo consumo. Grinspoon scrisse dunque un articolo del tutto diverso da quello che aveva progettato, che fu pubblicato nel ’68 sull’International Journal of Psichiatry e come editoriale nel 1969 su Scientific American. A questa pubblicazione ne seguirono altre, nutrite, oltre che dalla letteratura medica e scientifica, dal romanticismo francese. Dalle opere di Teofilo Gautier, Charles Baudelaire e altri membri del Club degli Haschischins nacque così nel 1971 Marijuana Reconsidered (Riconsiderare la marijuana) e, due anni dopo, scritto insieme a James Bakalar Marijuana, the forbidden Medicine (Marijuana, la medicina proibita Muzio editore 1995), nel quale si sostiene la tesi dell’utilità terapeutica della canapa con un’ampia raccolta di casi clinici.

Oggi Grinspoon è in prima linea nelle battaglie antiproibizioniste. Attraverso un sito internet (www.marijuana-uses.com) offre ai malati le informazioni che i loro medici curanti si rifiutano di fornire. Attualmente negli Stati Uniti solo sei pazienti possono legalmente utilizzare la cannabis. Sono i reduci di un gruppo di quaranta malati inseriti nell’Individual Treatment Investigational New Drug Program, chiamato anche Compassionate Ind., interrotto nel 1992. Il programma, che contemplava la possibilità di prescrivere la cannabis a pazienti i cui medici fossero disposti a seguire particolari procedure, era stato varato nel 1976 dal governo federale in sostituzione dei programmi di ricerca avviati in molti Stati (con il permesso del governo federale, visto che il Comprehensive drug Abuse Prevention and Control Act del 1970 colloca la cannabis nella tabella più restrittiva) per consentire ai pazienti sottoposti a chemioterapia per cancro di usare la canapa. Lo scorso settembre Grinspoon ha preso parte al convegno “La canapa terapeutica: la scienza e la legge”, organizzato a Roma da Forum Droghe, e in quella circostanza Sapere lo ha intervistato.

Professor Grinspoon, cosa c’è di vero sulle proprietà terapeutiche della canapa?

«È stata usata come medicina per migliaia di anni. La prima testimonianza risale a 5.000 anni fa, in uno scritto del regno dell’imperatore cinese Chen Nun, che la raccomandava per la malaria e i dolori reumatici. Quando feci il mio primo studio, nel 1967, trovai circa cento paper sugli usi terapeutici della cannabis nella medicina occidentale tra il 1840 e il 1900. Era indicata come stimolante dell’appetito, miorilassante, analgesico, sedativo, anticonvulsivo e per trattare la dipendenza da oppio. Fu un professore della facoltà di medicina di Calcutta, William Brooke O’Shaughnessy, il primo medico occidentale ad accorgersi delle sue proprietà curative. Nella prima metà dell’Ottocento, dopo averla provata su animali, iniziò a usarla con pazienti idrofobici, o sofferenti di reumatismi, di epilessia o infettati con il tetano. Il declino del suo uso medico si registrò già a partire dal 1890, con la scoperta dell’aspirina e poi del cloralio idrato e dei barbiturici. Il disinteresse per lo studio delle proprietà analgesiche è legato invece alla diffusione degli oppiacei e all’invenzione della siringa ipodermica che ha consentito la somministrazione di antidolorifici ad azione rapida per via endovenosa. Nel 1941, infine, come conseguenza indiretta del Marijuana tax Act del 1937, la cannabis fu esclusa dalla farmacopea statunitense. Personalmente, i racconti di molti casi clinici mi hanno convinto che si tratta di una sostanza miracolosa al pari della penicillina del XXI secolo. Funziona nell’alleviare i sintomi della chemioterapia contro il cancro, della sclerosi multipla, dell’osteoartrite, del glaucoma, dell’AIDS e della depressione, oltre ai sintomi di patologie meno comuni, come il morbo di Crohn, la gastroparesi diabetica e disturbi da stress post-traumatico».

Si tratta per lo più di evidenze aneddotiche, però, non riconosciute a pieno dal mondo scientifico…

«È vero, non ci sono ricerche con gruppi di controllo e a doppio cieco per conoscere la percentuale dei casi in cui la marijuana può essere efficace per un certo disturbo. Ma a mio parere non servono studi così costosi. Il suo uso sulla base dei resoconti di singoli casi sarebbe un problema se la cannabis fosse pericolosa. Ma le ricerche svolte in tutti questi anni hanno dimostrato che è più sicura della maggior parte dei farmaci prescrivibili, ha minori effetti collaterali e crea molta meno dipendenza di altre sostanze oggi in uso. Non sono sicuro che per dimostrarne l’efficacia e la non pericolosità convenga applicare il protocollo della Food and Drug Administration. In genere, infatti, le case farmaceutiche per vedere approvati i loro prodotti devono sottoporli a un’analisi rischi- benefici: un’operazione molto costosa che le compagnie sostengono solo se possono rientrare delle spese nell’arco dei venti anni di durata del brevetto. Ma nessuna azienda è interessata a condurre ricerche su una pianta che non può essere brevettata. E poi, mi chiedo, perché spendere soldi per capire alla fine quello che già sappiamo? Visti i bassi rischi legati all’uso medico della canapa, dovrebbe essere resa disponibile anche se solo pochi pazienti potessero trarne beneficio. Insomma, il rischio è talmente basso che vietare l’utilizzo in attesa di valutarlo non ha senso».

Esclude che abbia effetti tossici?

«Non ne ho mai trovata prova, né si è mai registrato un caso di morte per overdose da marijuana. Nell’intera farmacopea non si può dire altrettanto di nessun altro farmaco. È di certo meno tossica della maggior parte delle medicine. Prendiamo l’aspirina: è considerata sicura e poco dannosa, eppure negli Stati Uniti ogni anno da 1.000 a 2.000 persone muoiono per averla ingerita e 74 mila sono ricoverate per gli effetti collaterali degli antinfiammatori. In effetti, ciò che preoccupa di più è il danno respiratorio da fumo, ma questo è risolvibile ricorrendo a congegni per la vaporizzazione che separano le particelle di materia presenti nel fumo di marijuana dai suoi principi attivi, i cannabinoidi».

Nel 2006 il governo inglese ha autorizzato la vendita del Sativex, farmaco per il trattamento del dolore neuropatico nei pazienti affetti da sclerosi multipla. Lei però è un sostenitore della maggiore efficacia della canapa fumata rispetto ai derivati sintetici. Perché?

«Lo sviluppo di singoli cannabinoidi, di cannabinoidi sintetici, è il modo con cui si cerca di ovviare al problema di rendere disponibili le proprietà mediche della cannabis e nello stesso tempo vietarla a chi ne fa un uso ludico. Questa “farmaceutizzazione” però non renderà mai obsoleta la cannabis fumata. Prendiamo il caso del dronabinolo, approvato nel 1985 dalla Food and Drug Administration con il nome di Marinol, per il trattamento della nausea e del vomito da chemioterapia: la maggior parte dei pazienti ha continuato a trovare molto più utile l’erba. In effetti, per certi pazienti alcuni derivati della cannabis possono avere dei vantaggi rispetto alla marijuana fumata o ingerita. Per esempio, il cannabidiolo può essere più efficace come farmaco ansiolitico e come anticonvulsivo quando non è assunto insieme al THC, che a volte genera ansietà. Ma non credo che questi derivati potranno essere più utili della cannabis».

Come ci si regola con il dosaggio?

«Il vantaggio della somministrazione di cannabis attraverso i polmoni è la rapidità con cui essa fa effetto, che permette ai pazienti di calibrare la dose. Ciò non è possibile assumendo la cannabis in pillole: ci vuole più tempo perché l’effetto terapeutico si manifesti. Con il Sativex, la GW Pharmaceuticals sta tentando di mettere a punto dei prodotti e dei sistemi di somministrazione che aggirino le due preoccupazioni più diffuse: il fumo e gli effetti psicoattivi (il cosiddetto “high”). Il farmaco si deve assumere per via sublinguale e, sebbene agisca più velocemente rispetto al Marinol, che impiega da un’ora e mezzo a due ore, richiede sempre più tempo rispetto a quello della marijuana fumata. In più, dato il suo sapore spiacevole, molti pazienti non lo possono tenere sotto la lingua per il tempo necessario al suo assorbimento».

E quanto alla sicurezza?

«In effetti, nuovi derivati potrebbero essere molto meno sicuri della marijuana da fumare, perché sarà possibile ingerirne quan- Una conferenza del deputato democratico Maurice Hinchey a favore della marijuhana terapeutica, Washington, maggio 2005. titativi superiori al necessario. Qualunque nuovo derivato deve avere un “indice di sicurezza” accettabile. Nel caso della marijuana tale indice è sconosciuto, perché essa non ha mai causato una morte per overdose. Si stima, sulla base di estrapolazioni da dati sugli animali, che sia un quasi inesistente 20.000-40.000 [tale cifra indica il rapporto tra la dose letale e la dose terapeutica: più è alta, più il farmaco è considerato sicuro, Ndr.]. È improbabile che l’indice di sicurezza di un nuovo derivato possa essere superiore ».

Ma non si possono eliminare gli effetti psicoattivi?

«Non sono convinto che i benefici terapeutici della canapa possano sempre essere separati dai suoi effetti psicoattivi. Non credo neanche che ciò sia desiderabile. C’è da dire che chi fuma cannabis frequentemente per ridurre un dolore cronico o una elevata pressione intra-oculare avrà un “high” molto limitato o nullo. Molti pazienti sofferenti di gravi malattie croniche riferiscono che la cannabis li fa sentire meglio in generale e notano un leggero miglioramento del tono dell’umore. Ma se esiste davvero qualche differenza di dosaggio tra l’alleviamento del sintomo e l’effetto psicoattivo, allora è importante che i pazienti abbiano la possibilità di dosare la quantità di cannabis di cui hanno bisogno, e ciò è possibile solo fumandola. Per coloro che non gradiscono l’effetto psicoattivo, si può sempre sviluppare un derivato della cannabis che ne sia privo».

Lei parla anche di un campo di potenziamento delle facoltà umane. A che cosa si riferisce?

«Si tratta di un campo di azione della cannabis che sta a cavallo tra quello medico e quello ludico. Esso comprende una serie di usi disparati, come il potenziamento del piacere in una molteplicità di attività che vanno dal cibo al sesso, una accresciuta capacità di accostarsi alla musica e all’arte, e anche i modi in cui catalizza le nuove idee e la creatività. Si tratta di quel tipo di usi meno apprezzati o capiti da chi non la fuma. Può anche darsi che alcune persone che usano o hanno usato marijuana non siano consapevoli di alcune di queste possibilità di potenziamento, se non della maggior parte. Ciò può essere vero soprattutto per i giovani, che sono per lo più interessati alla sostanza perché promuove la socievolezza, il divertimento, la giocosità. Tutti sono consapevoli delle proprietà psicofarmacologicamente indotte, come il potenziamento dell’appetito. È un fatto molto comune e si manifesta con lo “sgranocchiare”: può essere un problema per i consumatori frequenti che hanno difficoltà a controllare il peso, ma è una manna per chi soffre gravemente di perdita di appetito, come i pazienti di AIDS. Per lo più queste capacità di potenziamento non sono semplici manifestazioni di inerenti proprietà psicofarmacologiche della cannabis; alcune necessitano di un qualche grado di apprendimento, per svilupparsi. Chi vuole imparare a usare la canapa in tutte queste modalità, deve prima di tutto conoscere queste possibilità, e poi esplorarle e accumulare esperienza».

Vede un futuro da farmaco per la cannabis?

«Dubito che sarà sviluppata come medicinale. Un futuro potrebbe essere la produzione di analoghi dei cannabinoidi esistenti in natura, che magari per certi pazienti potranno essere più efficaci della cannabis e riusciranno a eliminare del tutto l’effetto psicoattivo. Ma le case farmaceutiche sosterranno i loro costi solo in alcuni casi, perché sono maggiori della canapa, anche se essa è illegale. Il numero degli arresti per marijuana ha ormai raggiunto quota 800 mila negli USA eppure i pazienti continuano a rischiare usando la canapa come medicina. Per le farmaceutiche sarebbe una guerra persa in partenza. Per tutti i motivi che abbiamo spiegato: i farmaci sono meno efficaci della pianta naturale e costano di più».   

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