Ci sono non meno di 12 milioni di tonnellate di plastica “invisibile” nei primi 200 metri di profondità dell’oceano Atlantico. Lo ha scoperta una spedizione britannica che, per la prima volta, ha indagato in profondità la diffusione delle microplastiche nel mare. Un risultato che gli stessi autori dello studio – pubblicato su Nature Communications – definiscono sconvolgente, superiore di ben dieci volte alle stime precedenti.
Da quando nella prima metà del Novecento sono state sviluppate le materie plastiche (l’italiano Giulio Natta in questo diede un importante contributo), è sorto anche il problema di come smaltirle. Infatti, la loro durabilità – una delle caratteristiche che le ha fatte preferire rispetto ad altri materiali più tradizionali – diventa il principale difetto una volta che il prodotto si trasforma in rifiuto: si ritiene che per la plastica siano necessari più di mille anni per decomporsi in discarica. Se ci arriva.
Si stima che dal 1950 ad oggi siano state prodotte circa 9 miliardi di tonnellate di plastica. E con un trend in costante crescita: nel 2016 la produzione ha raggiunto i 335 milioni di tonnellate, + 4% rispetto all’anno precedente, secondo quanto riporta l’Associazione europea dei produttori di plastica. Di tutta la plastica prodotta e utilizzata, solo una frazione minima viene riciclata o incenerita: la maggior parte finisce in discarica o direttamente nell’ambiente – terreni, fiumi, mari. E qui, a causa di vari processi fisici (in primis l’azione delle onde e la radiazione solare) la plastica viene sminuzzata in frammenti sempre più piccoli, formando quella che viene chiamata microplastica in quanto di dimensioni misurabili in micrometri (per dimensioni ancora più ridotte si parla di nanoplastica).
Risultato: oggi la plastica – in frammenti dalle dimensioni nanoscopiche in su – è ovunque nell’ambiente – anche nell‘acqua che beviamo e nei cibi di cui ci nutriamo. E tuttavia ancora non conosciamo gli effetti di questa forma di inquinamento sugli ecosistemi e sulla salute umana.
Più banalmente, non si conosce con precisione nemmeno la quantità di plastica effettivamente presente nei mari. Difatti, lo studio pubblicato su Nature fornisce per la prima volta una soluzione a quello che gli scienziati chiamano “missing plastic problem”, ovvero il problema della plastica mancante: considerato che ogni anno ne finiscono in mare circa 8 milioni di tonnellate, oggi dovrebbero esserci centinaia di tonnellate di plastica nel negli oceani. Perché non si trova? Dove va a finire?
Per colmare questa lacuna, nel 2016 una spedizione scientifica a bordo della nave britannica RRS James Clark Ross è partita in perlustrazione nell’Oceano Atlantico, prelevando campioni di acqua di mare lungo una rotta di 10mila km, dal largo del Portogallo fino alle isole Falkland. In particolare, i prelievi sono stati effettuati a tre diverse profondità:
Analizzando i dati raccolti è risultato che, diversamente dai detriti di maggiori dimensioni – che tendono ad accumularsi in certe zone degli oceani a causa delle correnti superficiali (è celebre il caso del Pacific Trash Vortex, l’isola di rifiuti galleggianti in mezzo al Pacifico) – le microplastiche si distribuiscono in modo più omogeneo, in senso geografico e in profondità nell’acqua.
Non solo: si è scoperto che i frammenti più numerosi sono quelli tra i 50 e 75 micrometri, più piccoli, quindi, di quelli considerati negli studi precedenti, che si erano limitati a quantificare i frammenti di dimensioni maggiori di 250 micrometri e prelevati solo vicino alla superficie. Considerando che le microplastiche sono state trovate anche a centinaia di metri in profondità – osservano con sconcerto gli autori dello studio – ne risulta che finora il loro quantitativo era stato grandemente sottostimato.
Lo studio stima che nei primi 200 metri di profondità dell’oceano Atlantico ci siano tra 11,6 e 21,1 milioni di tonnellate di microplastiche, circa 10 volte di più rispetto a quanto stimato in base alle concentrazioni in superficie (0,8÷1,6 milioni di tonnellate). E questo solo per le tre più comuni tipologie di polimeri (polietilene, polipropilene e polistirene).
Naturalmente, la quantità complessiva di rifiuti plastici contenuti nell’Oceano Atlantico è ancora maggiore. Si arriva a cifre ben più grandi, osservano gli autori dello studio, considerando sia i frammenti di plastica di qualsiasi tipologia e dimensione (dalle nanoplastiche a quelli visibili a occhio nudo), sia il contributo degli strati più profondi dell’oceano.
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