Salute

Covid-19 e terapie intensive, perché è così difficile allestire nuovi posti

Stando agli ultimi dati pubblicati dalla Protezione civile, al 21 ottobre 2020 risultano complessivamente occupati 870 posti nelle terapie intensive italiane per i soli pazienti Covid-19, a fronte di un totale di 6458 posti disponibili. I numeri sono molto diseguali tra le regioni: sono 123, per esempio, i letti occupati in Lombardia e Lazio; solo uno in Basilicata e nella provincia autonoma di Trento, e addirittura nessuno in Molise. Va da sé, naturalmente, che sono molto diseguali anche il numero di abitanti e soprattutto la disponibilità di posti di ciascuna regione. L’andamento, comunque, è poco tranquillizzante: solo una settimana fa i posti occupati erano 514, quasi la metà di quelli di oggi; un mese fa erano 222. Dati che indicano come il tempo di raddoppio di occupazione dei letti si stia riducendo abbastanza velocemente, in linea con l’andamento sempre più accelerato dei contagi.

Se si fa un così gran parlare di terapie intensive è perché il numero di posti occupati, insieme a quello dei ricoveri e dei decessi, è un indicatore della gravità dell’epidemia più significativo rispetto al numero dei contagiati, che invece è legato, tra le altre cose, al numero dei tamponi e al campione di popolazione su cui vengono eseguiti.

Come sono fatte le terapie intensive…

A cosa ci riferiamo esattamente con i termini terapie intensive? In generale, si tratta di spazi grandi e aperti, equipaggiati per trattare pazienti che hanno bisogno di assistenza continua e specializzata. Come spiega la Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva (Siaarti), il cuore dell’unità di cura è naturalmente il letto del paziente, un presidio altamente tecnologico che permette di assumere molte posizioni diverse, posizionato di solito lontano dalle pareti, in modo da essere accessibile sui quattro lati, e dotato di ruote, spondine rimovibili e di un materasso ad aria con un compressore che ne regola costantemente la pressione in modo da prevenire la formazione di piaghe da decubito. Attorno al letto si trovano tutti i macchinari necessari all’assistenza del paziente: i ventilatori meccanici, che aiutano polmoni e muscoli respiratori in caso di insufficienza respiratoria; le pompe infusionali, che somministrano liquidi (farmaci e alimenti) in modo costante nel tempo; gli erogatori per l’ossigenoterapia. E ancora: un monitor sul quale vengono visualizzati i parametri vitali del degente, un sistema di aspirazione per rimuovere le secrezioni bronchiali del paziente quando questi non è in grado di tossire, un defibrillatore, una macchina per la dialisi.

Si tratta, com’è facile intuire, di luoghi molto complessi, dove tutto deve essere organizzato e sincronizzato in modo tale da rendere efficienti e sicure le operazioni del personale sanitario.

…e chi ci lavora

Non di soli macchinari è fatta una terapia intensiva. Tutt’altro: “Finora si è fatto un gran parlare di macchine e attrezzature”, ci spiega Antonino Giarratano, presidente designato della Siaarti, “ma le terapie intensive sono anche, e soprattutto, altro”. Per renderle operative, naturalmente, ci vuole del personale altamente specializzato. Tanto personale: “Per garantire 8 posti letto in terapia intensiva”, dice ancora Giarratano, “sono necessari almeno 12 intensivisti [ossia anestesisti-rianimatori specializzati in terapia intensiva, ndr]. Poi c’è bisogno di infermieri altrettanto specializzati, in ragione di almeno uno ogni due pazienti; in caso di soggetti contagiosi, per esempio pazienti con tubercolosi o Covid-19, il rapporto scende a uno a uno. E servono anche fisiatri, fisioterapisti, tecnici, psicologi. Tutte figure professionali di cui c’è grande carenza. Purtroppo in molte terapie intensive ci troviamo a lavorare con un infermiere ogni tre pazienti e molti meno intensivisti di quanto sarebbe necessario”.

Per ovviare al problema, già da tempo si è dovuto ricorrere agli specializzandi, che fanno da spalla agli strutturati nei reparti più congestionati. La pandemia non ha fatto altro che esacerbare la questione, costringendo a coinvolgere anche figure non specializzate come pneumologi e cardiologi, che spesso si trovano a dover sopperire alla carenza di intensivisti. “L’intenzione di allestire nuovi posti di terapie intensive”, spiega Giarratano, “è giustissima. Purtroppo ci vogliono tempo e risorse per trovare e/o formare il personale necessario. E per quanto l’emergenza sanitaria ci abbia dato un’accelerazione, snellendo per esempio le pratiche burocratiche e velocizzando le gare d’appalto, è innegabile che nei mesi di luglio e agosto c’è stato un certo rilassamento generale che ha rallentato l’allestimento e la riconversione dei posti letto”.

Cosa vuol dire (e quanto costa) allestire una terapia intensiva

Alla luce di quanto illustrato finora, è chiaro quanto sia complesso e dispendioso allestire (o riconvertire) dei posti in terapia intensiva. Abbiamo chiesto lumi a Lorenzo Leogrande, presidente dell’Associazione italiana degli ingegneri clinici (Aiic), che è occupato proprio dell’allestimento di posti letto in terapia intensiva al Policlinico Gemelli di Roma: “Facendo un solo conteggio delle attrezzature necessarie, senza tenere in considerazione le spese per l’impiantistica”, ci ha detto, “arriviamo a una cifra di circa 60mila euro per posto letto”.

Al di là del costo, ci sono da considerare anche i problemi relativi all’approvvigionamento dei materiali, particolarmente clinici in tempo di epidemia, e della formazione del personale nel caso di attrezzature nuove o provenienti da mercati extra-Ce. “Normalmente l’allestimento di un reparto di terapia intensiva con 15-20 posti letto”, dice ancora l’esperto, “richiede circa 3-4 mesi di lavoro. In tempi di emergenza, possiamo riuscire a riconvertire un reparto già esistente in 2-3 settimane”. L’unica possibilità per accorciare i tempi, al solito, è quella di prepararsi in anticipo: “I reparti ospedalieri dovrebbero essere concepiti in modo elastico, ossia strutturalmente pronti, soprattutto a livello di impiantistica (tutto quello che concerne l’aerazione, la distribuzione di gas medicali, il mantenimento del microclima, la rete elettrica), a essere riconvertiti in breve tempo in reparti di terapia intensiva”.

La situazione in Italia

Al momento, come dicevamo in apertura, in Italia abbiamo a disposizione 6.458 posti di terapia intensiva, oltre mille in più rispetto ai 5.179 dello scorso anno. Tanto per fare un (impietoso) confronto, la Germania dispone attualmente di 30.208 posti di terapia intensiva. Bene, ma non benissimo, visto che il decreto rilancio del 19 maggio 2020 aveva programmato un totale di 3.553 nuovi posti, molti dei quali sono ancora in fase di completamento. L’obiettivo era (e resta ancora) quello di arrivare ad almeno 14 letti per 100mila abitanti: la media nazionale è al momento ferma a 10,6 posti, con differenze significative tra le regioni. Val d’Aosta, Veneto e Friuli Venezia-Giulia hanno centrato il target, arrivando rispettivamente a 16,8, 15,9 e 14,4 posti per 100mila abitanti; Umbria e Campania sono molto più indietro, con 7,9 e 7,3 posti per 100mila abitanti.

Anche fuori dai confini nazionali, Germania a parte, c’è poco da sorridere: la Francia, per esempio, dispone di 9,7 posti per 100mila abitanti (mancano all’appello, però, circa 4mila posti in via di apertura); il dato del Regno Unito è fermo addirittura a 6,6, posti per 100mila persone.

Numeri a parte, però, c’è un elemento importante da tenere in considerazione. Abbiamo visto quanto sia dispendioso e difficile, in termini sia logistici che economici che di personale, aprire anche un solo nuovo posto di terapia intensiva. E, di contro, quanto sia facile e veloce la diffusione del virus. È una lotta impari: ferma restando l’importanza dei piani di ampliamento e di riconversione, è impensabile cercare di rincorrere una pandemia in cui il numero di contagi raddoppia ogni settimana (quando va bene), a fronte dei mesi necessari a mettere insieme attrezzature e personale per avere anche solo un centinaio posti letto in più. E allora, ancora una volta, l’unica strategia davvero efficace resta quella di prevenzione e pianficazione.

Via: Wired.it

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Credits immagine di copertina: Mufid Majnun on Unsplash

Sandro Iannaccone

Giornalista a Galileo, Giornale di Scienza dal 2012. È laureato in fisica teorica e collabora con le testate La Repubblica, Wired, L’Espresso, D-La Repubblica.

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