Da Science, tutto sulla cannabis terapeutica

    Malattie neurodegenerative, tumori, epilessia, ma anche ansia, nausea e dolori cronici. Sono solo alcune delle patologie per cui è stato proposto l’utilizzo della cannabis, sostanza ancora al centro di aspri dibattiti, ma che sempre più nazioni stanno decidendo di rendere disponibile a scopo terapeutico (è recente l’annuncio che in Italia verrà prodotta allo Stabilimento farmaceutico militare di Firenze). Per questo, durante il meeting annuale dell’American Association for the Advancement of Science (o Aaas, organizzazione che pubblica la rivista Science), tre esperti sono stati chiamati a fare il punto su quello che sa oggi la scienza sugli effetti medici della cannabis, quanto resta da scoprire, e quali siano i problemi che rallentano gli studi in questo campo. Ecco i punti principali emersi nel corso del loro intervento.

    Come funziona la marijuana.

    “Nel nostro organismo esistono naturalmente delle sostanze chimiche simili al Thc (il principio attivo della cannabis, ndr.) e ad altri cannabinoidi presenti all’interno della cannabis”, ha spiegato Roger Pertwee, neurofarmacologo della University of Aberdeen. I cannabinoidi (sia quelli prodotti dal nostro organismo, sia quelli che introduciamo con l’utilizzo di marijuana) agiscono su un particolare tipo di recettori nel nostro cervello che fanno parte del cosiddetto sistema endocannabinoide, la cui attivazione regola funzioni come l’appetito, l’umore, la memoria e il dolore. Fino ad oggi sono stati scoperti 104 diversi tipi di cannabinoidi, ma come ha sottolineato Pertwee: “le caratteristiche farmacologiche di molte di queste sostanze sono ancora sconosciute”.

    Quali sono gli utilizzi medici della cannabis?

    Da decenni la marijuana viene utilizzata per stimolare l’appetito e tenere a bada nausea e vomito, in particolare in pazienti sottoposti a chemioterapia. La sostanza ha mostrato inoltre di alleviare i sintomi della sclerosi multipla, scoperta che ha portato allo sviluppo di un farmaco chiamato Sativex, che contiene Thc e cannabidiolo, una particolare cannabinoide che non presenta effetti psicoattivi. La marijuana e i farmaci da essa derivati sembrano inoltre efficaci nel trattamento di ansia, depressione, disturbo da stress post traumatico, epilessia e dolore neuropatico. Gli indizi, hanno spiegato gli esperti, per ora in questi casi sono principalmente di tipo aneddotico, e attendono quindi di essere confermati da veri e propri trial clinici. “Attualmente abbiamo troppi pochi dati per realizzare delle linee guida efficaci per la prescrizione della cannabis in molte patologie”, ha sottolineato Mark Ware, medico del McGill University Health Center e organizzatore della conferenza.

    Perché sono stati svolti ancora pochi trial clinici?

    “Negli Stati Uniti, per lo meno, è difficile trovare i fondi necessari per portare avanti gli studi clinici sugli effetti della cannabis”, ha spiegato il terzo relatore, Igor Grant, psichiatra della University of California di San Diego, tra i pochi scienziati che ha portato avanti trial con questa sostanza. Secondo Grant, uno dei motivi principali è che le aziende farmaceutiche preferiscono investire nello sviluppo di sostanze che possono essere brevettate, mentre il governo classifica ancora la cannabis come sostanza dannosa e priva di effetti medici positivi, creando non poche difficoltà ai ricercatori che intendono studiarne gli effetti sulla salute.

    Quali sono i possibili rischi della cannabis terapeutica?

    “Non esiste alcuna prova di danni a lungo termine negli adulti”, ha sottolineato Grant. In passato si era parlato di un possibile legame tra l’uso di marijuana e un aumento di rischio di sviluppare schizofrenia, ma studi successivi non avrebbero confermato questi risultati. L’unico rischio conosciuto nell’adulto, spiega lo psichiatra, riguarda dunque la bronchite cronica. Differente invece la situazione tra i più giovani. Uno studio avrebbe infatti dimostrato che un forte utilizzo della sostanza nell’adolescenza sarebbe collegato ad un minore quoziente intellettivo in età adulta (il numero di persone coinvolto nella ricerca sarebbe però estremamente limitato). Gli studi più recenti si starebbero concentrando invece sull’imaging del cervello degli adolescenti, per scoprire in che modo la sostanza modifichi l’attività cerebrale di un sistema nervoso ancora in formazione. Si tratta però di ricerche ancora nelle prime fasi, e, come spiega Grant: “Le evidenze raccolte al momento sono ancora estremamente deboli”.

    via Wired.it

    Credits immagine: via Pixabay

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